venerdì 27 luglio 2012

Suzanne Balguerie chante "Ô malheureuse Iphigénie", de Gluck.

Incontro a Nardò su “Creative Mediation of Conflicts” organizzato da Studio IRIS (Centro di Mediazionee Formazione di Potenza (www.mediazioneiris.com)




E una donna disse: parlaci del dolore. 
E lui disse: Il dolore è lo spezzarsi del guscio che racchiude la vostra conoscenza. 
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi affinché il suo cuore possa esporsi al sole, 
così voi dovete conoscere il dolore. 
E se riusciste a custodire in cuore la meraviglia per i prodigi quotidiani della vita,
il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia; 
Accogliereste le stagioni del vostro cuore come avreste sempre accolto 
 le stagioni che passano sui campi. 
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore. 
Gran parte del vostro dolore è scelto da voi stessi. 
E’ la pozione amara con la quale il medico che è in voi guarisce il vostro male. 
Quindi confidate in lui e bevete il suo rimedio in serenità e silenzio. 
Poiché la sua mano, benché pesante e rude, è retta dalla tenera mano dell’Invisibile, 
E la coppa che vi porge, nonostante bruci le vostre labbra, 
è stata fatta con la creta che il Vasaio ha bagnato di lacrime sacre. 

Questa poesia di Kahil Gibram (da Il Profeta) potrebbe sintetizzare quello che mi ha dato l’incontro con la mediazione umanistica che ho fatto nel laboratorio Creative Mediation of Conflicts organizzato a Nardò da Studio Iris. La mediazione umanistica considera che il conflitto esprime un dolore. Quindi compito del mediatore umanistico non è semplicemente trovare un accomodamento tra due parti, ma fare in modo che le parti in conflitto accettino di passare attraverso il dolore (il dolore proprio e il dolore dell’altra parte) per “spezzare il guscio che racchiude la loro conoscenza”. Per poter essere facilitatore di mediazione il mediatore deve innanzi tutto conoscere la strada, deve lui stesso capace di guardare al dolore proprio o altrui come una opportunità di conoscenza, accettandolo come si accolgono le stagioni che passano sui campi. Mi viene da sorridere pensando che non accogliamo neppure le stagioni, che quando è freddo ci lamentiamo continuamente del freddo e quando è caldo ci lamentiamo continuamente del caldo. Forse vorremmo vivere nel limbo di una eterna primavera, con uno zefiro costante e profumato, ma anche allora troveremmo modo di lamentarci delle zanzare, delle spine delle rose, del fatto che la sera fa troppo fresco, oppure del polline che ci fa starnutire, perché siamo diventati allergici anche alla primavera. La strada della mediazione è quindi una strada di cambiamento, in cui si accoglie il dolore quando appare, con la consapevolezza che è "il medico che è in noi che ce lo manda "per guarire il male, per farci crescere nella conoscenza nostra e degli altri. Ma per fare questo abbiamo bisogno degli altri e per questo il conflitto va trasformato in dolore condiviso, in incontro (anche se poi dalla strada intrapresa le persone decidono di separarsi, ma dopo essersi “toccate”). Il dolore accettato produce il cambiamento. Dobbiamo accettare il cambiamento, ma per fare questo occorre guardare in faccia la paura, il terrore del cambiamento. Il cambiamento è benvenuto solo se sappiamo controllare la paura del cambiamento. Allora il cambiamento diventa risorsa, ricchezza, opportunità. E la medicina del dolore ha funzionato. Non è un passaggio facile. Abbiamo bisogno degli altri, ma abbiamo bisogno anche di costruire oggetti per stare in rapporto con gli altri, oggetti mediatori. Come Teseo può uccidere la Medusa usando il proprio scudo come specchio, perché se la guardasse direttamente in volto si trasformerebbe in pietra, abbiamo bisogno dello specchio per poter guardare il nostro dolore e mostrarlo agli altri, e inchinarci con grazia e compassione davanti al nostro dolore e al dolore degli altri. Il dolore spesso ci appare inaspettato, imprevisto. Come la gioia, d’altra parte. Quindi per accogliere il dolore, per accogliere il cambiamento, bisogna accogliere l’inaspettato. Come diceva Emerson: “Tutto ciò che sta per arrivare è sacro.” Ma per riconoscere questa sacralità dobbiamo superare gli attaccamenti. Gli attaccamenti ci precludono la disposizione all’accoglienza dell’inaspettato, di “tutto ciò che sta per arrivare”. 
Ho capito che la metodologia della mediazione umanistica deve molto a uno studio profondo della tragedia greca, dell’importanza delle sua scansione in teoria, crisi e catarsi per poter arrivare alla catarsi, intesa come rappresentazione, esplicitazione, riconoscimento delle emozioni e delle passioni mediante una azione drammaturgica. Le tecniche devono anche molto allo psicodramma e alla psicoterapia di Moreno e alle diverse forme di psicoterapia che vengono applicate alle situazioni di conflitto. Tuttavia non sono in grado di dire molto perché sono solo stato ospite di un incontro e non posso rispondere che delle mie impressioni, molto probabilmente parziali e da esterno. Posso solo testimoniare la conferma dell’importanza, in questi percorsi formativi, del gruppo e mi viene in mente la citazione di Moreno quando indica la ragione di questa importanza nel fatto che "L’intervento non è finalizzato solo a produrre un benessere psichico nelle singole persone, ma intende produrre nelle persone un apprendimento a relazionarsi in modo più adeguato con gli altri. Questo apprendimento non può avvenire che in un ambito di gruppo, nel quale si attenua l’Io e si evidenzia l’importanza della relazione, delle identificazioni e dell’incontro con l’altro". Ritengo che questo tipo di percorsi possono svilupparsi a diversi livelli, con accentuazioni diverse e con finalità diverse, richiedono una consapevolezza etica e deontologica basata sulla conoscenza di sé e l’aver imparato innanzi tutto ad essere mediatori con sé stessi, una consapevolezza delle emozioni e la capacità di lasciarle scorrere. Una riflessione importante che Francesca Genzano ha introdotto è inoltre quella del rapporto tra etica ed estetica. Un rapporto che non è esterno ma interno, e che fornisce il legame tra mediazione, accoglimento del dolore e dell’imprevisto, creatività ed etica. Un intreccio su cui è importante lavorare e riflettere. 

Ringrazio di nuovo gli amici di mediazione umanistica che mi hanno accolto con tanto calore a Nardò e spero di poter riuscire ad imparare ancora dalla loro esperienza, così come spero di imparare dalla mia esperienza. 

lunedì 16 luglio 2012

pietre di luci e tempo



Anche le pietre degradano. La pietra di lecce (calceolite) è particolarmente esposta a quella forma di degrado che si chiama "alveolizzazione" (honeycomb, cavernous decay), cioè la formazione di cavità di forma e dimensioni variabili, dette alveoli, spesso interconnesse e con distribuzione non uniforme. Questa foto, insieme all'altra che chiude il post,  l'ho scattata ieri a Lecce. Non è solo per fornire esempi della minaccia che questa corrosione porta al patrimonio artistico del "barocco leccese", ma perché questa foto sembra essere una cristallizzazione del tempo, con i diversi gradi di corrosione, dove la sostituzione conservativa a sinistra in alto con la sua superficie ancora liscia mette ancora di più in evidenza il vuoto del quadratino alla sua base. Il tempo, fattosi pietra, produce un gioco di luci e di ombre irregolare, unico e pieno di mistero pur nella luce abbacinante. I graffi nelle pietre sono graffiti, la pietra è luce nel suo farsi e disfarsi, nel suo miracoloso stato di sospensione. La durezza dell'angolo con cui si conclude la parete a destra  valorizza la luce sulla superficie ma anche la durezza e la fragilità delle pietre.  Il tutto è colto con uno sguardo che si è trasformato in un click,  che produce l'effetto di un' istantanea, come quando si sorprende l'espressione fugace di un volto. Ma l'istantanea esprime in realtà la rapidità del nostro sguardo, è nel nostro sguardo di passanti, che riflette il lungo passare del tempo sulle pietre.


domenica 8 luglio 2012

Ubuntu

Canto di protesta in lingua Bantu contro l'apartheid. E' parte della colonna sonora di In My Country, il film che prende spunto dalla Commissione sulla Verità e Riconciliazione del Sud Africa. Canta Princess Soi-Soi Gqeza (il tema sviluppa il senso drammatico del per-donare, coniugato con quella della giustizia e con il concetto di ubuntu







Tutu così spiegò il termine zulù  Ubuntu:
One of the sayings in our country is Ubuntu – the essence of being human. Ubuntu speaks particularly about the fact that you can't exist as a human being in isolation. It speaks about our interconnectedness. You can't be human all by yourself, and when you have this quality – Ubuntu – you are known for your generosity. We think of ourselves far too frequently as just individuals, separated from one another, whereas you are connected and what you do affects the whole World. When you do well, it spreads out; it is for the whole of humanity.
Nelson Mandela così spiegò il termine di Ubuntu
A traveller through a country would stop at a village and he didn't have to ask for food or for water. Once he stops, the people give him food, entertain him. That is one aspect of Ubuntu, but it will have various aspects. Ubuntu does not mean that people should not enrich themselves. The question therefore is: Are you going to do so in order to enable the community around you to be able to improve?

Lo stesso concetto lo troviamo in tante altre lingue e filosofie.

venerdì 6 luglio 2012

GABRIEL GARCIA MARQUEZ





’E’ ancora con noi, possiamo parlargli con allegria e con l’entusiasmo di sempre" 


e amarlo ancora di più. 

giovedì 5 luglio 2012

Ri-Conoscenza, Per-Donare

La composizione delle parole ci aiuta a riflettere sul loro significato profondo:

Ri - Conoscenza

Per - Donare


Alcune riflessioni dopo un colloquio con una mediatrice:

Da un po' di tempo sono arrivato a considerare la capacità di dare ri-conoscenza, essere ri-conoscenti, insieme con la capacità di per-donare (for give) (diverso dal dimenticare i torti ricevuti, al lasciar correre) delle competenze umane di base che superano il livello norme della convivenza civica e affondano le loro radici nella tenuta etica della società, ma anche nella cura del benessere profondo dei singoli, delle organizzazioni e della società, e nella costruzione della fiducia di fondo dei singoli. 
Sono delle competenze riflessive per eccellenza. Non credo che possa esservi pratica e capacità riflessiva se non passando attraverso la riconoscenza e il perdono perché la riflessività è innanzi tutto esperienza consapevole di essere parte di un universo di connessioni e risonanze,  e la riconoscenza e il perdono sono la strada per accettare questo essere parte (in ogni momento).
Questi sono la riconoscenza e il  perdono primari, da cui si producono la riconoscenza e i perdoni per atti, persone o situazioni particolari. Ma dal particolare possiamo percorrere la strada verso la riconoscenza e il perdono primari, perché sono nostre capacità e quindi possiamo esercitarle. 
Questa è la via per la percezione del nostro potere e della nostra vulnerabilità e per la comprensione "dall'interno" della nostra responsabilità, cioè della nostra capacità di rispondere avendo avuto la capacità di ascoltare.  
Solo se avvertiamo simultaneamente il nostro potere e la nostra vulnerabilità e pratichiamo riconoscenza e perdono possiamo essere apprezzativi, cioè possiamo dare valore al presente, al passato, al futuro, a noi stessi e agli altri, sia che li conosciamo che se non li conosciamo, o non li conosciamo ancora, alle cose e agli eventi, al loro ordine nascosto o al loro grandioso disordine che apre le porte ai mondi possibili e all'imprevisto.   
Per alcuni privilegiati si tratta di un dono naturale. Normalmente diventiamo capaci di riconoscenza e perdono attraverso una catarsi, una rivelazione, un lampo che squarcia il buio, o un dolore profondo che sappiamo accettare (purché lo sappiamo accettare). 
In un caso e nell'altro possiamo però anche perdere questa capacità. Per questo essa va esercitata e sostenuta quotidianamente. Per questo dobbiamo farci aiutare ed imparare ad accettare l'aiuto, imparando anche ad aiutare gli altri ad essere riconoscenti e a perdonare. 

mercoledì 4 luglio 2012

sottoilpelodell'acqua


E questo video, che oltre ad essere adatto al nome del blog, è adatto a questo caldo.




martedì 3 luglio 2012

Above the wind; festeggiando il superamento delle mille visite



Mi stavo domandando in quale modo festeggiare il superamento delle mille visite a questo blog e ringraziare in questo modo sia i visitatori passeggeri che gli amici più assidui ed ho trovato questa serie di René e Radka dedicata agli aquiloni tratta dagli archivi de le journal de la photographie e intitolata above the wind. Questo blog sta assumenti le caratteristiche di una sorta di viaggio che mi piace condividere, serio ma non serioso, o tedioso, con divagazioni che però girano intorno a un nucleo che mi sembra costituisca il filo conduttore, ma che corrono tutte un po' ... sotto il pelo dell'acqua. Mi sembra bello procedere spesso per rimandi, indicazioni di siti o you tube o libri, suggerire visite virtuali o no. La parte dei link dentro il testo e a margine fornisce questi suggerimenti oltre il testo, su percorsi talvolta convergenti, talvolta divergenti.

Questo è il link degli archivi di Le journal e de la photographie:

http://lejournaldelaphotographie.com/archives/by_date/2012-06-29/7349/rene-radka-above-the-wind

E naturalmente il sito dei due fotografi in cui è possibile vedere, oltre alcune delle loro foto, dei video (anche quelli degli aquiloni) suggestivi e anche provocatori:

http://reneradka.viewbook.com


domenica 1 luglio 2012

piano piano imparo

Da questo post segnaliamo alcune novità che sono state introdotte (in fondo alla pagina):
La traduzione dei testi in altre lingue e quindi anche in inglese che mi sembra accettabile
La statistica settimanale (per aumentare la trasparenza del blog)
Una agevolazione per iscriversi al blog
Un elenco di link "amici"(destinata a crescere nel tempo)
Un elenco di libri e altre segnalazioni consigliate (da perfezionare e da cominciare a riempire)
Per questi due elenchi si accettano suggerimenti

For our english speaking followers :

It is now possible to translate in english (or in other languages) the text (look at the bottom of the page)

Felicità e gratitudine, quale rapporto?




"La felicità è come la verità: non la si ha, ci si è. Per questo nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, ne dovrebbe uscire. L'unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine." Adorno (Minima Moralia)

Questa citazione conclude l'interessante articolo di Maurizio Ferraris su La Repubblica di oggi primo luglio dal titolo "Felicismo, la nuova ideologia" (con interessante bibliografia di riferimento). In questa riflessione che sto conducendo passo dopo passo i temi della felicità, del benessere, del dono, della gratitudine, della costruzione di un mondo "al positivo" e quindi che valorizza e apprezza, appaiono inanellati, presentano forti risonanze. E con essi il tema della "fiducia di fondo", di cui parlava lo psicologo Erickson e il cui tema è stato ripreso dal teologo Franz Konig, la cui mancanza è così vicina ad un certo tipo di pessimismo di fondo forse collegato al quadro clinico della depressione. Tutto ciò ha valenze individuali ma anche organizzative e sociali (esiste un quadro clinico di "depressione sociale"? Come la si può affrontare/curare? E' possibile la via della gratitudine come suggeriva Adorno?). Il recente libro di Seligman Flourish mostra che la psicologia del benessere sta diventando una prospettiva sempre più seguita. Ma quali problemi presenta? Come questi temi uniscono il nostro vissuto quotidiano e particolare, il nostro comportamento e il nostro modo di relazionarci e i grandi temi di fondo politici e di  civiltà della nostra epoca? Domande, domande, domande cui non si può rispondere solo intellettualmente ma neppure solo emotivamente, e cui non si può rispondere da soli. Domande cui si può rispondere sperimentando percorsi autentici, che impongono di trasformarci mano a mano che troviamo con gli altri delle "risposte" o delle consonanze. 
Sono tanti temi su cui in modo sempre più preciso vorrei continuare a sviluppare la conversazione su Sottoilpelodellacqua.blogspot.com, aprendolo se possibile ad altre esperienze e contributi. 
Per sintonizzarmi con il tema della gratitudine posto il canto di Mahalia Jackson Just as I Am, le cui parole dicono: 


Just as I am, without one plea, 
 but that thy blood was shed for me, 
 and that thou bidst me come to thee, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

2. Just as I am, and waiting not 
 to rid my soul of one dark blot, 
 to thee whose blood can cleanse each spot, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

3. Just as I am, though tossed about 
 with many a conflict, many a doubt, 
 fightings and fears within, without, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

4. Just as I am, poor, wretched, blind; 
 sight, riches, healing of the mind, 
 yea, all I need in thee to find, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

5. Just as I am, thou wilt receive, 
 wilt welcome, pardon, cleanse, relieve; 
 because thy promise I believe, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

6. Just as I am, thy love unknown 
 hath broken every barrier down; 
 now, to be thine, yea thine alone, 
 O Lamb of God, I come, I come. 

In forma di canto religioso rivolto all'Agnello del Signore (dono per eccellenza nel mondo cristiano posto a fondamento del nuovo patto) è un inno alla fiducia di fondo (come il salmo "Il signore è il mio pastore, non manco di nulla e come tante preghiere a partire dal Padre Nostro).  Quale è il posto della fede rispetto alla fiducia (di fondo)? E viceversa, quale è il posto della fiducia di fondo nella fede? Altre domande rispetto alle quali non ho risposte preconcette, né le trovo ancora, mentre trovo sensibilità.