sabato 25 agosto 2012

Detachment








Con ritardo, ho visto, in una saletta semideserta di una multisala romana, il film di Tony Kaye “Detachment”, di cui avevo sentito parlare come di un film sulla crisi della scuola. Non è un film sulla scuola, né sulla sua crisi, e neppure è un film con un facile happy end. E’ una lente di ingrandimento sul dolore che accomuna trasversalmente e nello stesso tempo separa giovani, adulti e vecchi. Il film esibisce una estetica del dolore e della degradazione dove la pietà non è mai facile, perché il dolore cattura, come un gorgo, e risospinge indietro, e tra un dolore e l’altro si erge il muro della stolidità e della invisibilità. Il regista costringe lo spettatore a guardare il dolore e la sua irriducibilità, ma nello stesso tempo, nel momento in cui esso diventa insopportabilmente violento, offre la prospettiva del detachment, della presa di distanza che preserva, anche in condizioni estreme, la possibilità del rispetto, dell’empatia e del perdono, e apre inediti spiragli di contatto e ascolto reciproco. 
Ma Detachment è anche un film sulla scuola, perché non è un caso che per parlare di questo dolore chi ha diretto e sceneggiato questo film abbia scelto il setting della scuola. La scuola è presentata come uno spazio in cui i dolori e i conflitti convergono, collassano gli uni negli altri, e nello stesso tempo, proprio per questo, luogo di continua, rischiosa, quotidiana, tensione tra coinvolgimento, emozioni e detachment.  Insegnanti, assistenti sociali, psicologi, infermieri, medici, sacerdoti....., tutti coloro che per lavoro sono quotidianamente immersi nel dolore altrui e impegnati in relazioni di aiuto, e quindi non possono perdere il contatto neppure con il proprio dolore,  sanno di cosa stiamo parlando, di quali dilemmi parla il film. Ma il film si riferisce alla scuola in senso anche più stretto, perché i modi (le pratiche e le forme) in cui si  affronta il rapporto tra coinvolgimento emotivo, empatia, e detachment, sono diverse. Il film suggerisce che nella scuola questo rapporto si può affrontare perché offre la possibilità di scrivere, di leggere, di pensare e grazie a ciò costringe a guardare in faccia il dolore senza esserne catturati e travolti, lo restituisce e lo trasforma, o almeno questa è la posta in gioco. Leggere e scrivere non sono solo tecniche per imparare a esprimere dei concetti, ma sono anche il modo con cui diventiamo capaci di produrre dei concetti nostri, di resistere all’omologazione prodotta dall’industria dei mass media, e di rendere le nostre emozioni sopportabili (consapevoli), permettendoci di guardare in faccia il dolore che ogni emozione comporta. Nel film sono diversi ma discreti i richiami a questa peculiarità del modo in cui l’insegnare si mette costantemente alla prova nel confine tra coinvolgimento e detachment, e sempre accompagnati dalla consapevolezza che le occasioni di “successo” sono veramente poche e precarie, quasi inesistenti. La sfida riguarda la scuola stessa come istituzione partecipe del potere e degli interessi economici (fondiari) nel territorio. Il protagonista è un supplente che teorizza il suo ruolo di supplente quasi come se questo possa dare una possibile libertà rispetto all’istituzione, come un distacco necessario per poter restare sulla risacca dove il detachment non è ancora indifferenza. E‘ una tesi che spinge il ragionamento all’estremo ma che offre un quadro  di riferimento di attualità, così come i cenni ai movimenti di riforma scolastica negli Stati Uniti. Non più che cenni, che aprono però brecce nelle retoriche dominanti. 
Coincidenze. Quest’estate ho letto un racconto che in modo più leggero si riferiva anch’esso alla scuola: Il professionale, di Ugo Cornia: il suo protagonista è anch’esso un supplente, anche se nella veste del precario, il suo “tema” è anch’esso un detachment, anche se condotto sul filo dell’ironia scanzonata piuttosto che su quello della tragedia e il setting è anch’esso di una scuola "marginale" (IPSIA, ragazzi simpaticamente problematici, ambientato nel mantovano) ma ben diverso dai quartieri degradati dei ghetti americani. Anche qui il tema del detachment è tradotto in uno stile espressivo, una estetica, che permette al dolore (che  è in questo caso solo intuito, ridotto a malessere) di fluire via consentendo sprazzi di comunicazione e magari di empatia: “E’ sempre stato strano e un po’ impossibile  capire veramente che cosa c’è nella testa di un altro, e però per me  è sempre stata anche una delle cose più belle  lo stare a guardare, quando appaiono, alcuni pezzi di quello che tutti i cervelli, continuamente e instancabilmente producono. Allora ti vedi queste sequenzine di parole-pensieri-eccetera che a un certo punto saltano fuori, passano e poi scompaiono.”(p. 66). Mi domando se mettere a confronto il buio e duro mondo di dolore raccontato da Tony Kaye e il nondo scanzonato e apparentemente leggero di Ugo Cornia non possa dirci qualcosa sul detachment e sul coinvolgimento e il modo di affrontare il dolore, o anche il malessere: anche il mondo di Cornia, a ben vedere, non offre molte vie di fuga, ma anch’esso affida alla parola (alle sequenzine di parole-pensieri-eccetera e allo stile narrativo dell’autore) il miracolo dell’equilibrio tra coinvolgimento e detachment. 

Mi domando anche: questa ricerca incessante e sempre incompiuta e rischiosa di un rapporto tra emozioni e coinvolgimento e detachment, cambia significato nelle diverse fasi della vita: nell’infanzia, nell’adolescenza, nella maturità, nella vecchiaia. Essa resuscita costantemente, ripetendosi e riscoprendosi ogni volta come un punto di equilibrio su cui si gioca il nostro essere uomini in generale e in quel particolare periodo della nostra vita. Nasce qui il bisogno che avverto in questo periodo della mia vita - e che esprimo anche con questo blog - di ritrovarmi con la scrittura, luogo di riconciliazione e di separazione, di immaginario e di sincerità, di meditazione personale e di comunicazione, equilibrio tra me e l’altro da me, tra il me permanente e il me che fluisce e lascia andare, tra il dolore (o il malessere) e la gioia (o il benessere)? Desiderio di riconciliarmi con il mio dolore, di ricercare una più precisa esattezza di sentimenti e di espressioni, di ritrovare il mio essere coinvolto nel mondo e insieme un modo diverso di essere in contatto con me stesso.

lunedì 6 agosto 2012

Sentieri e altre coincidenze






Sentieri.


Qualcuno l'ha battezzata "Sentiero della speranza", la mulattiera che sale su dal villaggio di Glassier, oltre Ollomont, dove la strada carrozzabile termina dopo essersi inerpicata del lato destro (orografico) della Val Pelline, che dopo aver superato l'Alpe Pont, porta alla spettacolare Conca di By e sconfina in territorio svizzero, alle pendici del massiccio del Gran Combin con il suo ghiacciaio. Le nostre montagne sono attraversate da sentieri di pastori, o soldati, o contadini, o cortei al seguito delle cacce reali, o mercanti e contabbandieri, oppure anche ribelli, fuorilegge e perseguitati di ogni genere. Sentieri delle comunità o dello Stato, oppure, sentieri di libertà e speranza. Il turista ignaro della loro lunga storia, delle generazioni che nel corso dei secoli li hanno costruiti e curati, li percorre come se fossero stati concepiti per le sue escursioni. Sono le antiche strade, umili monumenti di una geografia che si può conoscere solo con i piedi, ribattezzate con le lettere e i numeri di una cartografia turistica che ne giustifica la moderna economia, quanto basta per non essere cancellate da vegetazione, acqua, valanghe e frane, a spese delle esauste casse dello Stato. Per tramandare tracce di resistenza antinazista e, forse involontariamente, di sconfinamenti ancora più antichi, qualcuno ha battezzato questa mulattiera "Sentiero della speranza" consacrandolo con le parole profetiche e l'auspicio di Emile Chanoux che l'Europa potesse diventare una grande Svizzera, la Svizzera di allora, s'intende, terra di convivenza e di accoglienza, anziché "gigantesco mattatoio" in cui "i deboli sono massacrati solo perché sono deboli e la forza non solo calpesta il diritto ma si fa diritto essa stessa". Mi sono mosso troppo tardi per un percorso che parte tirando e senza ombra, e il sole oggi picchia. Decido di non bruciare questa escursione e di lasciarla per un'altra volta, coltivando la nostalgia dell'attesa.
Torno indietro. Mi fermo ad una locanda con ombrelloni, sdraio e tavoli per mangiare in compagnia. Ho infilato nel mio zaino, come lettura per i momenti di sosta, Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi, ambientato nella Lisbona del 1938, ai tempi della guerra civile spagnola, quando l'Europa era in bilico sull'abisso della seconda guerra mondiale. lo leggo mentre gusto il "tagliere" di formaggi e salumi e un bicchiere di fresca birra bionda.
" Discesero in silenzio l'Avenida da Libertade e arrivarono al Rossio. Pereira scelse un tavolino all'interno, perché fuori, sotto la tenda, faceva troppo caldo". Chi dice che non si possono fare due cose contemporaneamente, magari traendo dalla loro inedita risonanza una irripetibile sensazione? Proprio allora hanno cominciato a scendere discretamente dagli altoparlanti nascosti nella tettoia della locanda gli arpeggi di una chitarra che suona la melodia di un dolcissimo fado. La coincidenza, che viola tutte le leggi della probabilità, mi fa sentire leggero, come se una brezza di provvidenza laica aleggiasse sui prati vasti immersi nel meriggio. Sostiene Pereira. Parlo con la signora che gestisce la locanda. Si chiama Roberta, da poco ha aperto l'esercizio, una scelta di vita. Ha portato questo CD da un viaggio in bici attraverso il Portogallo, con una sua amica. Ragioniamo delle coincidenze, del Portogallo, di Tabucchi, della sua nuova esperienza di locandiera.
Tra poche ore, in Val di Rême, ho appuntamento con una anziana maestra da molto tempo ormai fuori servizio, come si dice. Ha insegnato per trenta anni nei villaggi di queste montagne. È una di quelle donne che rinnovano ogni momento la curiosità, la bellezza e l'entusiasmo, come gli antichi sentieri. Mi siederò accanto a lei e raccoglieró i ricordi, freschi come di ieri, delle sue pluriclassi, di una ragazza ventenne che ha studiato ad Aosta ma è diventata maestra in un villaggio di montagna, di bambini volenterosi abituati a studiare senza smettere di lavorare, di rapporti costruiti sulla creatività e l'entusiasmo, con il sostegno delle famiglie e dei bambini stessi, senza sussidi ed aiuti, o corsi di formazione o di aggiornamento, e senza colleghi con cui scambiarsi le esperienze. Racconti di quotidiano, spensierato, ottimistico, non eroico eroismo. Sentieri, coincidenze, tracce, memorie.
"Forse, nell'imperscrutabile trama degli eventi che gli dèi ci concedono, tutto ciò ha un significato". Sostiene Tabucchi.
Desiderio di comunicare questo sentimento di trame delicate del primo di agosto di cui solo gli dei sanno il significato, di cui sono stato testimone.