Mi faccio trascinare dalla discussione, soprattutto extrablog, malgrado avessi detto che essa doveva esserci dopo aver visto e digerito il film Monsieur Lazhar, per raccontare una piccola esperienza.
Prima dell'estate mi sono affacciato nel cortile di una scuola elementare modello, per molti versi all'avanguardia, con una forte caratterizzazione multinazionale (e multietnica). Era un momento in cui i bambini non erano ancora chiusi nelle classi. La cosa che mi ha colpito immediatamente sono stati il frastuono, le grida, il movimento frenetico in tutto lo spazio del cortile. L’immagine che mi è venuta alla mente è stata quella di una immensa uccelliera. Questo frastuono era in realtà il prodotto di una infinita moltiplicazione di "giochi", di relazioni tra i bambini, di micro-negoziazioni, di piccoli atti di prepotenza e di pacificazione, di cambiamenti di fronte. Mi accorgo di una scena: una bambina scende dalla macchina e i genitori l'accompagnano al cancello. Un'altra bambina, chiaramente in attesa, spicca una corsa dall'altro lato del cortile a braccia aperte gridando il suo nome. La bambina appena arrivata rimane fredda e impassibile, distoglie lo sguardo, sfugge all'abbraccio, tira dritta. L'altra bambina non si offende, ma ripiega nell’esibizione di giochi di equilibrio su un muretto, apparentemente indifferente, guardando con la coda dell'occhio se riesce ad attirare l'attenzione della sua "amichetta". Sforzi inutili. Naturalmente nessun adulto presidia la dinamica o l’osserva (a parte me che ero lì per caso ). Di nuovo piano lungo su tutto il cortile e poi di nuovo zoomata sulle microsituazioni, e vedo che in ognuna di essere i bambini sono impegnati nel gioco di attirare l'attenzione di questo o di quel compagno o compagna, nello schivare, nel tentativo di prendere la parola (per questo urlano), nel passare da una situazione a un'altra, oppure nell’includere o escludere gli altri dal gioco, nel dare o negare attenzione, in una frenetica attività di relazioni a due, a tre, a quattro.... Gruppi che rimangono costanti, gruppi che si disfano e si ricompongono, bambini che si guardano intorno per comprendere quale può essere la prossima mossa, dove dirigersi. E tutto ciò è riprodotto in modo più strutturato nei giochi, dov’è un continuo "mettersi alla prova", esibirsi, farsi vedere, farsi delle prepotenze, o nascondersi timidi, escludere ed includere o escludersi, rinunciare al confronti per paura o ritegno. La scuola è primariamente un luogo di relazioni tra i ragazzi in un ambiente formalmente finalizzato all'apprendimento, in cui gli adulti (insegnanti) devono costantemente conquistare una attenzione, uno spazio, un’autorità che in parte hanno per il ruolo, ma in parte dipende da come sapranno interagire con una dinamica che non possono controllare, ma cui possono (devono) dare delle regole, intrecciandola con un processo (anche) di apprendimento affidandosi poi alle dinamiche spontanee tra i bambini. Credo che questa sia la sostanza vivente della scuola, in cui ogni bambino o bambina porta non solo ciò che è ma ciò che vede fare a casa, ciò che crede si debba fare, le proprie paure e le proprie presunte sicurezze.
Il film Monsieur Lazahr inizia con un episodio da cui e su cui si sviluppa tutta la vicenda fino alla scena finale: il suicidio di un'insegnante mediante impiccagione. Un suicidio inscenato nell’aula, scoperto (viene inquadrata solo la parte inferiore del corpo) dal bambino incaricato quel giorno a portare dal magazzino la scatola di cartoni di latte per la classe. Monsieur Lazhar si candida per la sostituzione dell'insegnante e nel film costituisce in qualche modo l’occhio esterno (è algerino, non è neppure stato maestro nel suo paese, è quindi un millantatore, ma è una persona che porta con se una grande sofferenza, un destino da cui cerca di sfuggire) che grazie al suo dolore può interagire con il dolore dei bambini fino ad infrangere le direttive e i vincoli dell’istituzione. Come "gestire" il suicidio dell’insegnante? Questa domanda si lega strettamente a un’altra: perché si è suicidata? Quale è il senso di quella morte per ciascuno dei protagonisti, bambini o adulti? Basta allontanarlo da sé come la psicologa e l'istituzione vorrebbe o non occorre passare attraverso l'esplosione di una catarsi? Non voglio anticipare la fine, giacché il mistero si sviluppa con tempi e modi la cui scansione discreta, guidata da una suspense per vie interne dei sentimenti e delle relazioni, è parte integrante della bellezza del film. Posso solo dire che al centro ci sono i complessi e delicatissimi giochi relazionali che si sviluppano tra bambini e tra bambini e maestri, con tutti i dilemmi etici ed emotivi che essi evocano. Sullo sfondo i regolamenti, la deontologia, la vecchia e la nuova pedagogia, il dolore e i dilemmi su come affrontare situazioni “piccole” ma che possono innescare drammatici sviluppi.
Mi vengono in mente le difficoltà di tutti i tipi che rendono quasi impossibile agli insegnanti agire in modo consapevole: organici insufficienti, classi troppo numerose, difficoltà a sviluppare un lavoro cooperativo, rapporti con le famiglie troppo spesso di incomprensione, supporto istituzionale carente...
Sono pieno di rispetto per i tanti maestri che ogni giorno riescono ad affrontare queste situazioni, anche quando sono embrionali, in mezzo a tutte queste difficoltà, governando le cose senza dover intervenire ogni momento e solo quando è necessario. Dell'episodio di Palermo mi rattrista il fatto che se la prof avesse lasciato correre non sarebbe successo niente. I peccati di omissione talvolta sono più gravi dei peccati (o degli errori) che si compiono perché si sbaglia, ma costano meno a chi li compie.
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