domenica 17 febbraio 2013

Ladri e cialtroni



Re Carlo tornava dalla guerra.... ma era un gran cialtròn (Fabrizio d'André)

L'indignazione riempie le piazze. infiamma gli animi, sostituisce i ragionamenti. Il senso di impotenza rispetto agli effetti della crisi che salgono come l'acqua alta a Venezia, come sempre, apre la porta alle emozioni primordiali.  I politici sono i primi ad essere investiti da questa indignazione, ma dubito che questo sia l'effetto di "troppa politica". Propendo a pensare che sia "troppa società civile", cioè interessi di affaristi e lobbies, dentro la politica. Le tangenti diventano "commissioni" e suonano legittime. Come gli studenti sorpresi quando copiano da internet  dicono "ma perché, non si fa così?", i nostri dirigenti candidamente ammettono: "Ma perché, non è così che si fanno gli affari?".
Non ladri nel senso di borseggiatori, ma corrotti e corruttori, malversatori, privi di una cultura di governo, così sono stati coloro che ci hanno governato per troppi anni. Ma basta dire ladri e sostituirli con gli onesti? Purtroppo credo di no. Il professore ha bollato il governo che lo ha preceduto di un aggettivo d'altri tempi ma efficace: "cialtroni", un termine che aggiunge al significato di imbroglione quello di persone che si dedicano a una attività sostituendo l'imbroglio alla competenza: incompetenti e imbroglioni.
Si può essere onesti e cialtroni, anche se un cialtrone facilmente finisce per diventare disonesto per  occultare la propria incompetenza.
Credo che, mentre i cialtroni parlavano tanto di meritocrazia, in realtà dovunque nella società tutto si inceppava per l'incompetenza. L'indignazione non ci salva dall'incompetenza ma rischia di sostituire un tipo di cialtroni (gli indignati) ai precedenti (gli spudorati).  E dio solo sa se non abbiamo bisogno di persone competenti! E non della competenza dei tecnici, che quella non basta più neppure nelle professioni, ma di quella dei politici, che matura col tempo e con le esperienze (non necessariamente con l'età!), che si forma al fuoco di una cultura particolare, densa di consapevolezza istituzionale e di flessibilità mentale, di memoria e di innovazione, di visione e di pragmatismo, di rigore e di empatia. L'indignazione spalanca un vuoto che è fatale che sia riempito dai nuovi furbi, come è stato dopo tangentopoli. Tra pochi giorni siamo chiamati  a ricoprire un ruolo troppo difficile per poterlo affidare alle spinte emotive: quello di  elettori dei nostri legislatori, cioè di sovrani  (nelle forme e nei limiti dettati dalla nostra costituzione e... dal porcellum).   Non è un sondaggio di opinione, non è un gratta e vinci, è un atto istituzionale, da esercitare con il massimo di competenza. Spero che non si debba dire che siamo diventati irrimediabilmente un popolo di cialtroni.....

mercoledì 13 febbraio 2013

La rete bene comune





Negli ultimi anni di insegnamento all’Università era diventato sempre più difficile ottenere che gli studenti rispettassero nella stesura delle tesi quello che è un imperativo etico elementare nella ricerca scientifica: non copiare. Ho sempre ritenuto che ciò non dipendesse solo dall'intenzione di "fregare il professore" ma anche e soprattutto dall’incomprensione di cosa significhi fare ricerca e quale sia il valore delle idee e delle informazioni e l’importanza nella indicazione corretta delle “fonti”. Legato a ciò vi è il problema della responsabilità verso ciò che si scrive. 
Quando mi portavano (e capitava sempre più spesso) pagine, paragrafi o capitoli interi copiati di sana pianta (lascio perdere i casi che fossero copiate le tesi intere, perché questa era chiaramente una truffa consapevole), sempre più spesso lo studente o la studentessa non capiva quale fosse il problema. 
"Dove lo hai preso questo pezzo?" 
"L'ho trovato su internet!" (orgoglioso/a)
"Si ma chi lo ha scritto, in quale articolo o libro, o sito?" 
"Ora non ricordo ma... a casa ho l'appunto!". 
Che quei pezzi avessero un autore, che quei ragionamenti o informazioni fossero parte di un testo, fossero stati presentati in occasione di un convegno oppure pubblicati in una pubblicazione scientifica o in un documento aziendale, non faceva differenza. Che quel “ritrovamento” potesse essere l’inizio di un percorso di connessioni, di scoperte, di  idee, di conoscenze, non era previsto.
Il copia e incolla senza alcuna considerazione per la qualità della fonte e per la necessità di citarla era considerato un comportamento normale: "Ma perché, non si fa così?". 
Una studentessa mi disse: "Ma se io ero capace di scrivere così mica stavo qui a laurearmi! Quindi è logico che io abbia copiato!". 
Un mio collega mi ha raccontato di un suo studente che per la tesi aveva copiato parti importanti di un suo articolo, senza naturalmente citarlo, e forse neppure rendendosi conto che era un articolo del suo professore. Ecco, a mio avviso nulla più di queste affermazioni e di questi comportamenti esprime la distanza tra cultura consumistica di massa e cultura educata costruita sulla base di regole, di attendibilità, di prove e di assunzione di responsabilità. Una cultura accountable, basata su argomentazioni, dimostrazioni ed evidenze e su una consapevolezza delle fonti.
Questo comportamento e questo atteggiamento non è diffuso solo tra gli studenti italiani: vi è tutta una letteratura internazionale che denuncia da anni la diffusione del plagio (plagiarism) in termini per lo più moralistici, come furto o truffa, fornendo un’ampia documentazione sulla diffusione del fenomeno, ed esistono sul mercato diversi strumenti informatici per scoprire se un pezzo è copiato. Ma ogni professore con un po' di mestiere capisce subito quali brani sono copiati ed è capace agevolmente di risalire alle fonti originarie perché sa come rintracciare l'informazione, sa seguire le orme di un testo che permettono di fare il percorso a ritroso, così come ogni studioso, collegamento per collegamento, è capace di rintracciare la storia delle idee, delle argomentazioni, delle informazioni.
E' indubbio che internet e i motori di ricerca sempre più potenti accrescono a dismisura il grado di interconnessione dell'informazione e della ricerca. Proprio per questo si è sviluppata un’esigenza etica sempre più avvertita, che è un misto di tracciabilità, di rispetto per i diritti e il lavoro degli altri, di consapevolezza che la nostra capacità di produrre nuove idee o forme espressive o di produrre e fornire informazioni dipende dalla nostra capacità di stare nella rete in modo intelligente e di darne conto pubblicamente. Stiamo parlando della consapevolezza che la frontiera tra ciò che è nostro, ciò che è di altri e ciò che è comune è diventata una delle questioni più sensibili in una epoca come questa. Siamo, come è stato detto da Rifkin, nell'epoca dell'accesso (J. Rifkin, L’era dell’accesso, Oscar Mondadori, Milano, 2001), cioè l’epoca in cui la creazione di valore si basa sulla capacità di muoversi e orientarsi in modo critico e consapevole nell'offerta esagerata di informazioni e di dati potenzialmente disponibili, di beni immateriali che si presentano sotto forma di processi e di flussi più che di stock e di proprietà divise da steccati. 
Chi per mestiere o per cultura sa meglio di altri come accedere alle informazioni e interrogare o interpretare le fonti e i flussi di informazione ha maggiore potere e, proprio per questo, maggiore responsabilità nei confronti del resto della società e del pubblico e sarebbe giusto aspettarsi da lui più rispetto sia per il pubblico che per gli altri operatori dell'informazione.
In che modo si esprime questo? Vi sono delle norme a difesa del diritto d’autore che occorre conoscere e rispettare (vedi la bella presentazione del prof. Spedicato, rettore dell'Università di Bologna su come usare i materiali reperiti in Internet senza violare il diritto d'autore http://amsacta.unibo.it/3617/1/Spedicato_Attività_di_ricerca_e_uso_di_materiali_reperiti_in_Internet.pdf)
 ma credo che ci anche sono alcune regolette minime di comportamento, che il linguaggio di internet esprime con particolare efficacia: condivisione e legame (link). Anche una citazione è una condivisione e un legame, e la condivisione è il riconoscimento esplicito, pubblico, di questo legame che unisce le nostre idee, il nostro lavoro e i nostri prodotti intellettuali e artistici alle idee, al lavoro e ai prodotti intellettuali e artistici degli altri, il riconoscimento esplicito di un link o di una catena di link, fatto in modo tale da permettere a chi ci legge o ci ascolta di ripercorrere con noi il viaggio, o almeno una sua parte, lasciandogli la libertà di viverlo in modo diverso da come lo abbiamo vissuto noi, di trarne conclusioni diverse.  
Il link permette velocemente di ricontestualizzare l'informazione o la scrittura, muoversi indietro e orizzontalmente in modo critico nei contesti in cui le idee maturano, dialogando con gli altri in un ambiente che è stato definito "bene comune della creatività" (creative common). Questo common vive grazie a dei servitori (stewards) di una rete di cui devono dare conto in modo esplicito perché in tal modo riconoscono e manifestano il valore di quella rete e delle persone che la abitano, e comunica questo valore in modo che produca nuovo valore, trasformando il common in creative common. Coloro che operano nel campo dell’informazione, che ne dovrebbero essere gli stewards, hanno la responsabilità di questo valore e sono protagonisti della sua valorizzazione solo se rinunciano al piacere narcisistico di attribuire il valore al momento della “appropriazione”, che è un atto di superbia, di dissimulazione e, insieme, una smagliatura di quella rete che dovrebbero servire e il cui sviluppo dovrebbero promuovere. Questo è ciò che la scuola dovrebbe insegnare, il valore cui dovrebbe educare. La lotta contro l'ideologia della cultura come consumo e fruizione passiva e acritica o come un bene senza autore, qualche volta, però, sembra impari. 



domenica 10 febbraio 2013

Formiche e costruzione della società civica



Sto entrando in punta di piedi in questo formicaio che si definisce Terzo Settore. Terzo rispetto allo Stato, terzo rispetto al for profit, ma primo per quanto riguarda la trasformazione quotidiana della   "società civile" in società civica, la realizzazione di quella che si chiama la "cittadinanza attiva". Sì, perché per essere veramente cittadini non basta una carta di identità, significa anche partecipazione, impegno, tessitura dei legami che  costruiscono la cittadinanza. Senza la cittadinanza attiva tutta la vita civile e politica si affloscia come un pallone svuotato.
Il Terzo Settore in Italia è organizzato in un Forum nazionale, che si articola in Forum regionali. Il Forum regionale del Lazio, per fare un esempio, coinvolge oltre un milione di persone ed è una rete di 40 reti.


Leggiamo nel sito www.terzosettorelazio.it:

Il Forum del Terzo Settore del Lazio coinvolge oltre un milione di persone, ed è una rete di 40 reti. Tra soci, lavoratori di cui molti sono disabili, volontari collaboratori, ne rappresenta oltre 350.000 di tutte le provenienze culturali, sociali, politiche, etniche, religiose. 
E’ presente a Roma, Latina, Frosinone, Rieti e Viterbo con alcune migliaia di sedi e circoli. Il Forum del Terzo Settore nel Lazio è un organismo di rappresentanza di questo mondo e le sue associate gestiscono migliaia di servizi ed attività con fondi propri o in convenzione con gli enti locali.  Forum del Terzo Settore significa nel Lazio, case famiglia, case per ferie, case per donne maltrattate, case di riposo, asili nido, ludoteche, Consigli comunali dei ragazzi e dei giovani, parchi ambientali, fattorie didattiche e sociali, educazione ambientale, palestre per il benessere fisico, piscine, campi da gioco per tutti gli sport, centri diurni, centri anziani, centri giovanili, centri per la genitorialità, volontariato nei musei, negli ospedali, per la protezione civile o davanti le scuole. Ma anche centri studi, centri di ricerca, archivi, biblioteche, formazione, teatri, sale per la musica, bande musicali, animazione, comunità di accoglienza, informagiovani, informaimmigrati, sportelli per consumatori ed utenti ...e tanto altro.


Da sei anni assegna dei premi alle associazioni, alle istituzioni, ai media e agli individui che vengono segnalati come realizzatori di attività di particolare interesse. Il premio si chiama Formica d'Oro, perché la miriade di piccole realtà associative che compongono il Terzo Settore sono, come le formiche,  impegnate freneticamente ogni giorno a rendere migliore la vita di questo formicaio che è la società civile: non delegano agli altri per poi limitarsi a criticare (ma anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano). Non occorre appartenere ufficialmente a questo "Settore": sotto il pelo dell'acqua, o sotto la superficie di questo formicaio, c'è un mondo che è ben diverso e molto migliore di quello falso che fa notizia dietro lo schermo televisivo. Sembra incredibile quanta positività, quanta attenzione, quanta cura, le persone sono in grado di esprimere anche nei movimenti  politici, nei sindacati, nelle attività produttive, nelle organizzazioni professionali! Il formicaio è straordinariamente resiliente, cioè è incredibilmente capace di resistere agli attacchi, ma ha bisogno di un ambiente favorevole per esprimere il meglio di sé, qualche volta per sopravvivere.  E certamente oggi è messo veramente a dura prova. 
Anche chi non è direttamente impegnato nella loro attività, è responsabile della sopravvivenza e dello sviluppo di questi formicai.
Per esempio con il voto, che non è solo espressioni di una opinione, come un sondaggio telefonico, ma un atto istituzionale che pesa in ogni caso, nel bene o nel male, nel futuro.
Penso che questo significa "voto utile".





sabato 2 febbraio 2013

Prendetevi le vostre responsabilità, c....!



Capitano Schettino: Ma si rende conto che qui è buio e che non si vede niente?

L'ex ex Presidente del Consiglio dice che il suo Governo ha attuato (quasi) tutto il programma che aveva annunciato nel Contratto con gli Italiani, come attestato anche dall'Università di Siena (!). La riforma dell'Università, per esempio, l'ha fatta. La famosa Riforma Gelmini! La quale ha fatto seguito alle riforme precedenti che, a partire dal 1998, sulla base del cosiddetto "Processo di Bologna" (iniziato nel 1999) e sulla base degli obbiettivi della "Conferenza di Lisbona" (2000)  hanno rimodellato la nostra Università su paradigmi e standard internazionali. Ricordo gli obbiettivi che l'Europa aveva fissato per cercare di trasformare l'Europa nella "economica basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale" entro il 2010 (l'enfasi retorica non manca ai nostri rappresentanti in Europa né alle burocrazie di Bruxelles). Tra questi obbiettivi vi era aumentare sensibilmente la percentuale dei giovani che conseguivano un livello di istruzione superiore (laureati), migliorare il rapporto tra Università e mondo del lavoro, aumentare la mobilità europea di studenti e professori, ovviamente elevare anche la qualità degli studi e della formazione (quelli che pomposamente sono stati chiamati learning outcome cioè i risultati in termini di apprendimento. Inoltre era evidentemente necessario modernizzare tutto il sistema della ricerca e della formazione e partecipare alla competizione internazionale della nuova produzione della conoscenza, sia formando e selezionando un personale adeguato, sia sviluppando centri di eccellenza, sia, cosa che è indispensabile se si vuole raggiungere i due punti precedenti, partecipando ai flussi internazionali della conoscenza. Se i nostri governanti fossero sfiorati dall'idea che devono dar conto delle loro politiche e delle loro azioni, come qualsiasi uomini d'onore, dovrebbero confrontarsi con i dati dei risultati di più di dieci anni di cambiamenti e invece di inorgoglirsi per le riforme fatte dovrebbero vergognarsene, che so, chiedere scusa, spiegare dove e perché hanno sbagliato, cosa hanno imparato dai loro errori, insomma, assumersi delle responsabilità. Non dovrebbero nascondersi dietro l'alibi della crisi, visto che la necessità di migliorare il sistema dell'Istruzione Superiore (non solo l'Università, ci sarebbero anche le rovine del sistema di formazione professionale da spiegare), mirava proprio a rafforzare la capacità delle società europee  far fronte alla concorrenza internazionale (Stati Uniti, Cina, India, ma anche Nuova Zelanda, Brasile, Sud Africa....) e quindi accrescere la sua resilienza della società (non solo dell'economia) di fronte ai colpi della crisi.
In termini quantitativi l'Italia, che era già tra agli ultimi posti per percentuale di laureati, è scesa ulteriormente.  Gli atenei italiani sono precipitati nelle graduatorie internazionali a livelli mortificanti, la percentuale di studenti fuoricorso o che abbandona gli studi è rimasta ai livelli scandalosi di prima (un terzo solo si laurea in corso) malgrado la famosa riforma del 3 + 2, i premi per chi si laurea in tempo e l'introduzione del numero chiuse in molte facoltà, mirassero ad abbattere questa triste anomalia tutta italiana. I dati, particolarmente quelli del numero di immatricolati e dei laureati, sono ancora più gravi se si tiene in conto che molti nuovi immatricolati alle lauree triennali sono iscritti ai corsi di laurea tecnici (per esempio infermieri e fisioterapisti) che ora obbligatoriamente devono conseguire il titolo per poter esercitare la professione e che oltre 14.000 studenti sono iscritti alle  università telematiche spuntate come funghi (11) sotto i Ministri Moratti e Germini (e 2.000 si sono laureati in queste università). Quindi alla diminuzione quantitativa dei laureati si è aggiunta la svalutazione qualitativa delle lauree e della formazione universitaria legata a una privatizzazione selvaggia.
Salvo rari casi, inoltre, il rapporto tra mondo accademico e mondo del lavoro e delle professioni non solo non si è sviluppato, ma probabilmente si è ulteriormente allontanato e deteriorato. Il tessuto che connette i luoghi di formazione della conoscenza e dell'innovazione si è andato slabbrando e i buchi  sono diventati sempre più vistosi, come sotto l'effetto del morbo della encefalopatia spungiforme bovina (mucca pazza).
Insomma, se stiamo ai dati, i risultati di quasi quindici anni di riforme sono un completo fallimento. C'è veramente poco di cui vantarsi. Si aggiunga a tutto ciò il deterioramento del clima all'interno dell'Università, la continua rincorsa a rientrare in parametri ogni volta più cervellotici e penalizzanti che dovrebbero orientare il cambiamento, i tagli delle risorse e la riduzione di tutte le opportunità che lo sviluppo scientifico e tecnologico mettono a disposizione della ricerca a livello internazionale, la continua riduzione degli stipendi e l'aumento incredibile del carico di lavoro (didattica frontale, impegno nel governo dei numerosi nuovi organi di governo e in adempimenti sempre più pressanti e numerosi) a spese della ricerca, le carriere costose e distorte, e infine i costi crescenti sopportati da famiglie e studenti per mantenersi agli studi superiori (penso anche ai  costi che deve sopportare uno studente fuori sede, non solo alle tasse universitarie). E in tutto questo, il moltiplicarsi a cascata di effetti non previsti e perversi che invece di migliorare stanno distruggendo il nostro patrimonio universitario, fanno sparire discipline intere, affossando il suo ruolo nella formazione dei cittadini e dei lavoratori senza gettare le basi di un sistema moderno di ricerca e formazione superiore.
La responsabilità ce l'hanno anche i professori universitari, probabilmente, oltre alle professioni e al mondo del lavoro, ma in un sistema centralizzato come quello italiano (malgrado l'autonomia universitaria) la responsabilità principale ce l'hanno coloro che hanno governato in modo sempre più centralistico questo sistema e i tecnici di cui si sono contornati e che hanno "calato", o tradotto in pratica, in Italia le linee di cambiamento e le direttive europee.
Una delle caratteristiche del nuovo sistema è stata quella di aver moltiplicato i meccanismi di valutazione all'interno del sistema. Formalmente, il "sistema" è diventato molto più "responsabile" e trasparente, capace quindi di combattere gli abusi, gli opportunismi, i parassitismi. Ma quale sistema di responsabilità è stato messo a punto per i tecnici e i politici che gestiscono il sistema nel suo complesso, quelli che cioè sono responsabili della responsiveness del sistema, cioè della sua capacità di darsi degli obbiettivi, di perseguirli, di tradurre le politiche in azioni efficaci,  insomma di realizzare la governance del sistema? Possono essere responsabili solo coloro che devono rimediare ai danni delle riforme?
Questo post può sembrare un po' troppo "caldo" rispetto allo stile del blog  ed effettivamente riflette il fatto che mi ritengo una persona "informata dei fatti", che ha creduto agli obbiettivi delle riforme, alla possibilità di migliorare un sistema che indubbiamente era diventato inadeguato, perdeva colpi, aveva perso riflessività e capacità di reazione, si era provincializzato. Una volta un tecnico del Ministero della Pubblica Istruzione mi disse, a proposito delle riforme nella Scuola, che esse erano come un intervento chirurgico a cuore aperto, perché il sistema non può fermarsi per aspettare che i cambiamenti siano pronti. I cambiamenti devono inserirsi nei tempi lunghi di trasformazione di un sistema complesso e delicatissimo e questo richiede ai riformatori capacità particolari e una conoscenza approfondita del sistema e degli effetti che provoca ogni circolare, ogni decreto, ogni norma. Questa espressione "intervento chirurgico a cuore aperto" mi è venuta in mente molte volte in questi anni a proposito anche dell'Università, tenendo conto che il sistema Universitario è ancora più complesso, in parte perché  riguarda non solo la formazione e l'insegnamento ma anche la ricerca, e quindi la riproduzione e lo sviluppo di quelle architetture della conoscenza che sono le discipline, le strutture stesse della formazione della conoscenza scientifica, in parte perché più esposto alla rapidità dei cambiamenti e all'internazionalizzazione dei processi di produzione della conoscenza. Governare un sistema di tale complessità nel mare agitato della globalizzazione è molto difficile e si possono commettere errori, non si può fare per decreto ma accrescendo la capacità di reazione spontanea, ma siamo sicuri che in conseguenza di queste misure il sistema non ha perso la sua capacità di reazione, siamo sicuri, visto che siamo finiti sugli scogli, che i comandanti erano all'altezza e si sono contornati di aiutanti in grado di prevedere l'effetto delle decisioni che prendevano, hanno essi hanno l'onestà di ammettere le loro responsabilità invece di dare le colpe agli altri con spiegazioni più o meno sociologiche e come il Capitano Schettino dichiarare che non possono tornare a bordo perché "è buio" e una lancia gli si è messa di traverso?









What a wonderful world!






Louis Armstrong canta What a Wanderful World


I see trees of green, red roses too
I see them bloom for me and for you
And I think to myself, what a wonderful world

I see skies of blue and clouds of white
The bright blessed bay, the dark sacred night
And I think to myself, what a wonderful world

The colours of the rainbow, so pretty in the sky
Are also on the faces of people going by
I see friends shakin' hands, sayin' How do you do?
They're really saying I love you

I hear babies cryin'. I watch them grow
They'll learn to much more than I'll ever know

And I think to myself, what a wonderful world
Yes, I think to myself, what a wonderful world






venerdì 1 febbraio 2013

I murales e la città



Apro nel blog una nuova pagina dedicata ai murales, e in particolare al rapporto tra murales e città, al modo in cui gli artisti riflettono la città e ne modificano il panorama. Il titolo della pagina potrebbe essere la città dentro i murales e i murales dentro la città. I primi murales sono quelli che ho fotografato a L'Aquila, che esprimono in modo particolarmente efficace la violenza del terremoto come crollo, come scissione delle persone, come fuga. Come al solito per vedere le foto cliccare su pages (sotto l'intestazione): I murales e la città.