domenica 16 settembre 2012

Ancora su scuola, bullismo e Monsieur Lazahr


Mi faccio trascinare dalla discussione, soprattutto extrablog, malgrado avessi detto che essa doveva esserci  dopo aver visto e digerito il film Monsieur Lazhar, per raccontare una piccola esperienza. 
Prima dell'estate mi sono affacciato nel cortile di una scuola elementare modello, per molti versi all'avanguardia, con una forte caratterizzazione multinazionale (e multietnica). Era un momento in cui i bambini non erano ancora chiusi nelle classi. La cosa che mi ha colpito immediatamente sono stati il frastuono, le grida, il movimento frenetico in tutto lo spazio del cortile. L’immagine che mi è venuta alla mente è stata quella di una immensa uccelliera. Questo frastuono era in realtà il prodotto di una infinita moltiplicazione di "giochi", di relazioni tra i bambini, di micro-negoziazioni, di piccoli atti di prepotenza e di pacificazione, di cambiamenti di fronte. Mi accorgo di una scena: una bambina scende dalla macchina e i genitori l'accompagnano al cancello. Un'altra bambina,  chiaramente in attesa,  spicca una corsa dall'altro lato del cortile  a braccia aperte gridando il suo nome. La bambina appena arrivata rimane fredda e impassibile, distoglie lo sguardo, sfugge all'abbraccio, tira dritta. L'altra bambina non si offende, ma ripiega nell’esibizione di giochi di equilibrio su un muretto, apparentemente indifferente, guardando con la coda dell'occhio se riesce ad attirare l'attenzione della sua "amichetta". Sforzi inutili. Naturalmente nessun adulto presidia la dinamica o l’osserva (a parte me che ero lì per caso ). Di nuovo piano lungo su tutto il cortile e poi di nuovo zoomata sulle microsituazioni, e vedo che in ognuna di essere i bambini sono impegnati nel gioco di attirare l'attenzione di questo o di quel compagno o compagna, nello schivare, nel tentativo di prendere la parola (per questo urlano), nel passare da una situazione a un'altra, oppure nell’includere o escludere gli altri dal gioco, nel dare o negare attenzione, in una frenetica attività di relazioni a due, a tre, a quattro.... Gruppi che rimangono costanti, gruppi che si disfano e si ricompongono, bambini che si guardano intorno per comprendere quale può essere la prossima mossa, dove dirigersi. E tutto ciò è riprodotto in modo più strutturato nei giochi, dov’è un continuo "mettersi alla prova", esibirsi, farsi vedere, farsi delle prepotenze, o nascondersi timidi, escludere ed includere o escludersi, rinunciare al confronti per paura o ritegno.  La scuola è primariamente un luogo di relazioni tra i ragazzi in un ambiente  formalmente finalizzato all'apprendimento, in cui gli adulti (insegnanti) devono costantemente conquistare una attenzione, uno spazio, un’autorità che in parte hanno per il ruolo, ma in parte dipende da come sapranno interagire con una dinamica che non possono controllare, ma cui possono (devono) dare delle regole, intrecciandola con un processo (anche) di apprendimento affidandosi poi alle dinamiche spontanee tra i bambini. Credo che questa sia la sostanza vivente della scuola, in cui ogni bambino o bambina porta non solo ciò che è ma ciò che vede fare a casa, ciò che crede si debba fare, le proprie paure e le proprie presunte sicurezze. 
Il film Monsieur Lazahr inizia con un episodio da cui e su cui si sviluppa tutta la vicenda fino alla scena finale: il suicidio di un'insegnante mediante impiccagione. Un suicidio inscenato nell’aula, scoperto (viene inquadrata solo la parte inferiore del corpo) dal bambino incaricato quel giorno a portare  dal magazzino la scatola di cartoni di latte per la classe. Monsieur Lazhar si candida per la sostituzione dell'insegnante e nel film costituisce in qualche modo l’occhio esterno (è algerino, non è neppure stato maestro nel suo paese, è quindi un millantatore, ma è una persona che porta con se una grande sofferenza, un destino da cui cerca di sfuggire) che grazie al suo dolore può interagire con il dolore dei bambini fino ad infrangere le direttive e i vincoli dell’istituzione. Come "gestire" il suicidio dell’insegnante? Questa domanda si lega strettamente a un’altra: perché si è suicidata? Quale è il senso di quella morte per ciascuno dei protagonisti, bambini o adulti? Basta allontanarlo da sé come la psicologa e l'istituzione vorrebbe o non occorre passare attraverso l'esplosione di una catarsi? Non voglio anticipare la fine, giacché il mistero si sviluppa con  tempi e  modi la cui scansione discreta, guidata da una suspense per vie interne dei sentimenti e delle relazioni, è parte integrante della bellezza del film. Posso solo dire che al centro ci sono i complessi e delicatissimi giochi relazionali che si sviluppano tra bambini e tra bambini e maestri, con tutti i dilemmi etici ed emotivi che essi evocano. Sullo sfondo i regolamenti, la deontologia, la vecchia e la nuova pedagogia, il dolore e i dilemmi su come affrontare situazioni “piccole” ma che possono innescare drammatici sviluppi. 
Mi vengono in mente le difficoltà di tutti i tipi che rendono quasi impossibile agli insegnanti agire in modo consapevole: organici insufficienti, classi troppo numerose, difficoltà a sviluppare un lavoro cooperativo, rapporti con le famiglie troppo spesso di incomprensione, supporto istituzionale carente... 
Sono pieno di rispetto per i tanti maestri che ogni giorno riescono ad affrontare queste situazioni, anche quando sono embrionali, in mezzo a tutte queste difficoltà, governando le cose senza dover intervenire ogni momento e solo quando è necessario.  Dell'episodio di Palermo mi rattrista il fatto che se la prof avesse lasciato correre non sarebbe successo niente. I peccati di omissione talvolta sono più gravi dei peccati (o degli errori) che si compiono perché si sbaglia, ma costano meno a chi li compie. 

martedì 11 settembre 2012

Monsieur Lazhar e i dilemmi della Scuola





Sembra che la scuola sia sempre più rappresentato come una angolazione privilegiata da cui osservare problemi, dolori e dilemmi etici di fondo del nostro tempo. Dopo Detachment, è uscito nelle nostre sale cinematografiche Monsieur Lazahr. Come le recensioni hanno messo in evidenza lo stile con cui si trattano i temi in questo film è essenziale, sommesso, mai apodittico, aperto al dubbio. Sempre di più sono convinto che quello che conta nei film non è la trama o le tesi che vengono sostenute, ma ciò che l’estetica complessa e corale del film (la recitazione, la regia, la sceneggiatura, la fotografia, ecc.) lascia allo spettatore e che spesso lo spettatore non sa rappresentare in altro modo che consigliando o non consigliando di andare a vedere un film, senza ridurlo a categorie che gli stanno strette.... Come ogni forma d’arte. Quindi mi permetto di consigliare questo film. Magari di consigliarlo, questo film canadese, oggi che inizia l'anno scolastico da noi in Italia e prima di mettersi a discutere del comportamento caso della prof. Giuseppina Valido di Palermo, cui la Cassazione ha comminato, dopo 5 anni e tre gradi di giudizio, 15 giorni di carcere per la punizione inferta  (scrivere  100 volte "sono deficiente") ad uno studente colto a compiere un grave atto di bullismo nei confronti di un compagno (seconda media). Violento è giudicato il professore per abuso del suo potere disciplinare.  L’Italia come il solito si schiera polarizzandosi a favore dello studente maltrattato o a favore dell’insegnante e tutti hanno ragione, tutti hanno torto. Mi colpisce il comportamento della famiglia del bulletto, mi colpisce l’incapacità della scuola di risolvere il problema al suo interno, mi colpisce che il bulletto (o la sua famiglia?) non sia perseguito per il danno psicologico inferto al compagno (cui si impedisce l’entrata al bagno accusandolo di essere effemminato, all’età di 11 anni!). Insomma un tema da trattare con la delicatezza sofferente di cui dà prova il film Monsieu Lazahr anziché affidarlo alle argomentazioni degli avvocati, alle carte bollate e alle sentenze dei giudici. Quando si arriva a questo punto, forse, qualsiasi decisione è sbagliata se non altro perché 5 anni di processi hanno lasciato senz'altro un segno su tutti i protagonisti, questo è certo. In ogni caso, sommessamente, consiglierei a tutti i protagonisti, ma soprattutto alla famiglia del bulletto, di andare a vedere questo film. E magari, poi, “il dibattito”. 

mercoledì 5 settembre 2012

Il senso del blog


(da www.outdoorblog.it: Mongolfiere a Cingoli)


Cerco di riprendere il filo e il senso di questo blog. Esso è stato uno stimolo a tenere una qualche forma di diario di riflessioni, emozioni, eventi significativi. E’ quindi molto personale. Nello stesso tempo, condivido tutto ciò, rendo tutto ciò “pubblico”. Mi accorgo che, se immagino di condividere i miei pensieri, penso "meglio", cioè produco meglio dei pensieri e mi riesce più facile stabilire tra loro connessioni creative, forse anche perché sono abituato a pensare dialogando, sono un po’ dipendente da questa forma del pensare, che è un po’ anche un rappresentare, un tradurre il mio pensiero e le mie esperienze in parole (trasmesse oralmente o per scritto), immagini, musiche. C’è stato un periodo nella mia vita, in piena adolescenza, che pensavo parlando da solo ad alta voce. Quindi, anche se il blog è un po’ un dialogo a senso unico, con un lettore virtuale che normalmente non si manifesta salvo  attraverso il conto delle visite che risultano dalle statistiche, esso mi aiuta ad unire pensiero e scrittura, riflessione e sua rappresentazione. In questo risiede, in fondo, il mistero della scrittura come potere del pensiero e potere sul pensiero, traduzione del pensiero in emozioni e delle emozioni in pensieri attraverso la scelta delle parole, la costruzione delle frasi, l’elaborazione dei testi....evocazione di immagini e suoni), atto privato e pubblico insieme, come un fare, come disseminare indizi in modo che anche la confessione più spudorata diventi, nella sua forma, pudica. Scrivere è sempre un manifestare, un rivelare, un dire, ma anche un celare, un suggerire, un non dire. Ho scovato recentemente negli scaffali du una libreria storica di Parma il bel saggio di Duccio Demetrio, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, RaffaelloCortina Ed., 2011, che parla della passione della scrittura e degli scrittori per diletto (diversi dagli scrittori dilettanti!) e, a mio avviso giustamente, vede nella diffusione dei blog un’espressione della diffusione della passione per la scrittura (del diletto della scrittura) a livello di massa, oltre la cerchia degli addetti ai lavori. 
Mi sembra anche che il blog sia una forma molto democratica e libertaria, o almeno discreta, di condivisione. Non si impone nulla a nessuno, i post sono come piccole mongolfiere che salgono in aria con le loro fiammelle e si snodano seguendo gli inviti del vento, fino a scomparire, o a recarsi altrove. Ma sono anche un filo di ragionamento, delineano una “storia”, un inanellamento, che si può, volendo, ripercorrere all’indietro ricorrendo agli archivi, o seguire lateralmente, affidandosi ai link. Vi sono alcuni vecchi post che risalgono a mesi fa che continuano a ricevere visite. Il blog è anche uno spazio costruito nel tempo ma che può essere letto in modo sinottico.  Leggere e interpretare un blog richiede tempo almeno o forse ancora di più che scriverlo. Per questo è così diverso da facebook, che si presta piuttosto al surf dei sentimenti e delle emozioni. Da parte mia non sempre il percorso è lineare e io stesso mi domando il perché di certe deviazioni e quanto sia giusto lasciare al vento degli avvenimenti o delle letture il potere di orientare il flusso del pensiero. In questi mesi, non dovendo rispondere a nessuna autorità delle mie scelte grazie al mio nuovo stato di pensionato, sono diventato un lettore disordinatamente ed entusiasticamente onnivoro, ma mi accorgo che in questo modo, quando entro in una libreria o scelgo le ordinazioni su Amazon, sono diventato come un rabdomante e mi diverto a scoprire, anche ex post, i criteri, magari inconsci, che hanno guidato le mie scelte. Si crea in tal modo una certa interattività , un dialogo, tra me e gli autori con cui entro in contatto. Ciò crea sempre una qualche  oscillazione tra la stabilità dei miei gusti e delle mie propensioni e le direzioni che prendono i miei pensieri e le mie emozioni sotto la sollecitazione di questi nuovi “amici”, che magari mi spingono ad incontrare altri amici, per link successivi. 
Ora, per esempio, una nuova sollecitazione si è insinuata nella trama di pensieri e di riflessioni di cui ho cercato di parlare nel blog. Casualmente (continua, se vogliamo, il tema misterioso delle coincidenze di cui parlavo nel penultimo post), seguendo le vibrazioni del mio bastoncino da rabdomante, ho scovato e letto in simultanea due libri che non conoscevo, del cui contenuto nulla sapevo e che si sono rivelati entrambi dei libri sul morire e sul sopravvivere (oppure no) all'agonia e alla morte degli amici e delle persone più care. Sono due libri che trasmettono messaggi diversi, anche perché uno dei due parla  del morire all’interno della cornice della dissoluzione delle proprie facoltà fisiche e psichiche e di quelle della propria moglie nella vecchiaia, l'altro del ricordo del morire delle persone care e del loro ripensarle. Sono quindi esperienze diverse,  ma che ci (mi) obbligano a pensare alla morte, o meglio al morire, e che condividono un tipo di esperienza  assolutamente intima del dolore. Il primo libro sono i diari 1984-1989 dello scrittore ungherese Sandor Màrai (L’ultimo dono, Adelphi), il secondo è La Grande Festa, di Dacia Maraini (Rizzoli). La condivisione degli aspetti più intimi di questa esperienza, il difficile superamento del tabù che circonda l'esperienza della morte e del morire e del ricordare oltre la morte il morire delle persone più care e la loro scomparsa, richiede, per essere accettabile, un sovrappiù di sincerità rispetto allo scrivere di cose non protette da un tabù. Contemplo questa coincidenza (aver incontrato contemporaneamente questi due libri) e mi chiedo quale rapporto vi sia con la linea di riflessione sviluppata nel blog: per esempio, con  la "fiducia di fondo": accettare il lutto e il morire sono legati all’accettare la vita? Accettare il morire (il proprio e l’altrui morire) richiede una grande fiducia nella vita, mentre la mancanza della fiducia nella vita costituisce un ostacolo alla nostra capacità di accettare la morte (o anche di pensare e di parlare della morte): l’accettazione della morte costituisce il massimo livello di fiducia di fondo nella vita?). E la rimozione della morte è collegata con una crescente rimozione della vita? Penso che tornerò in uno dei  prossimi blog con maggiore precisione su queste assonanze che i libri di Maraini e di Màrai mi hanno suggerito con il filo conduttore del mio blog. Che rapporto c’è, per esempio, tra l’esperienza del donare e quella del morire? E tra il detachment, di cui ho parlato nell'ultimo post, e il vivere o il morire altrui, o anche i propri? Ho citato questo tema perché queste letture fanno parte del mio diario di questi giorni (è casuale che siano avvenute alla ripresa di settembre, quando mi accingo a pensare al nuovo anno e ai nuovi impegni che liberamente deciderò di  assumermi e in tal modo celebrerò definitivamente il lutto nei confronti di molti affetti, abitudini, "me" precedenti lasciandoli scorrere via, vivendo consapevolmente il principio buddista, ma non solo, dell'impermanenza) e i pensieri e le emozioni che esse mi hanno suscitato sono qualche cosa (un valore) che mi piacerebbe condividere:  ciò che mi piace condividere, più precisamente, è il rapporto tra questi pensieri e queste esperienze e quelle espresse in altri precedenti post e la trama  che sostiene il loro sviluppo, cui assisto con stupore a fianco dei miei lettori virtuali, riscoprendo in questo loro sviluppo ciò che vale per me, che ha sempre valso, anche quando mi distraevo, che ha animato i miei bisogni e i miei valori. Tutto ciò è intimo, individuale, personale, e non avrebbe molto senso condividerlo. Ma il lavoro che questa emersione esprime, questo è un valore che vorrei condividere, giacché mi capita il privilegio di realizzarlo.