mercoledì 5 settembre 2012

Il senso del blog


(da www.outdoorblog.it: Mongolfiere a Cingoli)


Cerco di riprendere il filo e il senso di questo blog. Esso è stato uno stimolo a tenere una qualche forma di diario di riflessioni, emozioni, eventi significativi. E’ quindi molto personale. Nello stesso tempo, condivido tutto ciò, rendo tutto ciò “pubblico”. Mi accorgo che, se immagino di condividere i miei pensieri, penso "meglio", cioè produco meglio dei pensieri e mi riesce più facile stabilire tra loro connessioni creative, forse anche perché sono abituato a pensare dialogando, sono un po’ dipendente da questa forma del pensare, che è un po’ anche un rappresentare, un tradurre il mio pensiero e le mie esperienze in parole (trasmesse oralmente o per scritto), immagini, musiche. C’è stato un periodo nella mia vita, in piena adolescenza, che pensavo parlando da solo ad alta voce. Quindi, anche se il blog è un po’ un dialogo a senso unico, con un lettore virtuale che normalmente non si manifesta salvo  attraverso il conto delle visite che risultano dalle statistiche, esso mi aiuta ad unire pensiero e scrittura, riflessione e sua rappresentazione. In questo risiede, in fondo, il mistero della scrittura come potere del pensiero e potere sul pensiero, traduzione del pensiero in emozioni e delle emozioni in pensieri attraverso la scelta delle parole, la costruzione delle frasi, l’elaborazione dei testi....evocazione di immagini e suoni), atto privato e pubblico insieme, come un fare, come disseminare indizi in modo che anche la confessione più spudorata diventi, nella sua forma, pudica. Scrivere è sempre un manifestare, un rivelare, un dire, ma anche un celare, un suggerire, un non dire. Ho scovato recentemente negli scaffali du una libreria storica di Parma il bel saggio di Duccio Demetrio, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, RaffaelloCortina Ed., 2011, che parla della passione della scrittura e degli scrittori per diletto (diversi dagli scrittori dilettanti!) e, a mio avviso giustamente, vede nella diffusione dei blog un’espressione della diffusione della passione per la scrittura (del diletto della scrittura) a livello di massa, oltre la cerchia degli addetti ai lavori. 
Mi sembra anche che il blog sia una forma molto democratica e libertaria, o almeno discreta, di condivisione. Non si impone nulla a nessuno, i post sono come piccole mongolfiere che salgono in aria con le loro fiammelle e si snodano seguendo gli inviti del vento, fino a scomparire, o a recarsi altrove. Ma sono anche un filo di ragionamento, delineano una “storia”, un inanellamento, che si può, volendo, ripercorrere all’indietro ricorrendo agli archivi, o seguire lateralmente, affidandosi ai link. Vi sono alcuni vecchi post che risalgono a mesi fa che continuano a ricevere visite. Il blog è anche uno spazio costruito nel tempo ma che può essere letto in modo sinottico.  Leggere e interpretare un blog richiede tempo almeno o forse ancora di più che scriverlo. Per questo è così diverso da facebook, che si presta piuttosto al surf dei sentimenti e delle emozioni. Da parte mia non sempre il percorso è lineare e io stesso mi domando il perché di certe deviazioni e quanto sia giusto lasciare al vento degli avvenimenti o delle letture il potere di orientare il flusso del pensiero. In questi mesi, non dovendo rispondere a nessuna autorità delle mie scelte grazie al mio nuovo stato di pensionato, sono diventato un lettore disordinatamente ed entusiasticamente onnivoro, ma mi accorgo che in questo modo, quando entro in una libreria o scelgo le ordinazioni su Amazon, sono diventato come un rabdomante e mi diverto a scoprire, anche ex post, i criteri, magari inconsci, che hanno guidato le mie scelte. Si crea in tal modo una certa interattività , un dialogo, tra me e gli autori con cui entro in contatto. Ciò crea sempre una qualche  oscillazione tra la stabilità dei miei gusti e delle mie propensioni e le direzioni che prendono i miei pensieri e le mie emozioni sotto la sollecitazione di questi nuovi “amici”, che magari mi spingono ad incontrare altri amici, per link successivi. 
Ora, per esempio, una nuova sollecitazione si è insinuata nella trama di pensieri e di riflessioni di cui ho cercato di parlare nel blog. Casualmente (continua, se vogliamo, il tema misterioso delle coincidenze di cui parlavo nel penultimo post), seguendo le vibrazioni del mio bastoncino da rabdomante, ho scovato e letto in simultanea due libri che non conoscevo, del cui contenuto nulla sapevo e che si sono rivelati entrambi dei libri sul morire e sul sopravvivere (oppure no) all'agonia e alla morte degli amici e delle persone più care. Sono due libri che trasmettono messaggi diversi, anche perché uno dei due parla  del morire all’interno della cornice della dissoluzione delle proprie facoltà fisiche e psichiche e di quelle della propria moglie nella vecchiaia, l'altro del ricordo del morire delle persone care e del loro ripensarle. Sono quindi esperienze diverse,  ma che ci (mi) obbligano a pensare alla morte, o meglio al morire, e che condividono un tipo di esperienza  assolutamente intima del dolore. Il primo libro sono i diari 1984-1989 dello scrittore ungherese Sandor Màrai (L’ultimo dono, Adelphi), il secondo è La Grande Festa, di Dacia Maraini (Rizzoli). La condivisione degli aspetti più intimi di questa esperienza, il difficile superamento del tabù che circonda l'esperienza della morte e del morire e del ricordare oltre la morte il morire delle persone più care e la loro scomparsa, richiede, per essere accettabile, un sovrappiù di sincerità rispetto allo scrivere di cose non protette da un tabù. Contemplo questa coincidenza (aver incontrato contemporaneamente questi due libri) e mi chiedo quale rapporto vi sia con la linea di riflessione sviluppata nel blog: per esempio, con  la "fiducia di fondo": accettare il lutto e il morire sono legati all’accettare la vita? Accettare il morire (il proprio e l’altrui morire) richiede una grande fiducia nella vita, mentre la mancanza della fiducia nella vita costituisce un ostacolo alla nostra capacità di accettare la morte (o anche di pensare e di parlare della morte): l’accettazione della morte costituisce il massimo livello di fiducia di fondo nella vita?). E la rimozione della morte è collegata con una crescente rimozione della vita? Penso che tornerò in uno dei  prossimi blog con maggiore precisione su queste assonanze che i libri di Maraini e di Màrai mi hanno suggerito con il filo conduttore del mio blog. Che rapporto c’è, per esempio, tra l’esperienza del donare e quella del morire? E tra il detachment, di cui ho parlato nell'ultimo post, e il vivere o il morire altrui, o anche i propri? Ho citato questo tema perché queste letture fanno parte del mio diario di questi giorni (è casuale che siano avvenute alla ripresa di settembre, quando mi accingo a pensare al nuovo anno e ai nuovi impegni che liberamente deciderò di  assumermi e in tal modo celebrerò definitivamente il lutto nei confronti di molti affetti, abitudini, "me" precedenti lasciandoli scorrere via, vivendo consapevolmente il principio buddista, ma non solo, dell'impermanenza) e i pensieri e le emozioni che esse mi hanno suscitato sono qualche cosa (un valore) che mi piacerebbe condividere:  ciò che mi piace condividere, più precisamente, è il rapporto tra questi pensieri e queste esperienze e quelle espresse in altri precedenti post e la trama  che sostiene il loro sviluppo, cui assisto con stupore a fianco dei miei lettori virtuali, riscoprendo in questo loro sviluppo ciò che vale per me, che ha sempre valso, anche quando mi distraevo, che ha animato i miei bisogni e i miei valori. Tutto ciò è intimo, individuale, personale, e non avrebbe molto senso condividerlo. Ma il lavoro che questa emersione esprime, questo è un valore che vorrei condividere, giacché mi capita il privilegio di realizzarlo. 

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