Ricordo d’infanzia. Nella Roma ancora ancora disseminata dalle macerie ma già meta delle prime ondate di immigrazione (nazionale, naturalmente) e dove il fronte del cemento armato cominciava con ritmo sostenuto ad espandersi nelle campagne, confinando bruscamente con borghetti e baracche, una volta l’anno o magari in occasione di un compleanno, o a Natale, i miei genitori facevano venire in casa un fotografo. Ricordo dove abitava, in un borghetto di case basse e strade sterrate, perché una volta andammo fino a casa sua per ritirare le foto. Sono buone pose di maniera, mia sorella di un anno, mio fratello di cinque, io di nove, i vestiti buoni per l’occasione, gli occhi preoccupati fissi sull’obbiettivo della macchina fotografica (anzi sull’”uccellino”, un po’ sopra la spalla del fotografo, come egli diceva muovendo la mano sinistra là dove l’uccellino presumibilmente stava spiccando il volo, allora non si usava invitare a dire ciiis). Le guardo ora, sessant’anni dopo, vedo i nostri volti, gli abiti, ricostruisco con il senno di poi i nostri caratteri dalle espressioni e dalla posizione dei nostri corpi. Penso il miracolo di queste foto ricordo, diventate documenti anche per noi che vi siamo ritratti, come le foto di classe, scattate ogni anno nel cortile della Scuola, con la maestra o il maestro, al centro o all’estremità di una delle fila, in cui il destino di ognuno ci sembra già scritto nel modo in cui i fiocchi dei grembiuli erano stretti, o inamidati o flosci, o dritti o sghembi. E successivamente nelle medie, con i professori più seri, l’energia e il carattere di ciascuno a stento congelati nella posa dettata dalla regia del fotografo, con dietro le firme, documento nel documento, che ti fanno ricordare i nomi - Ma dove sei tu? Cercami, guarda se mi riconosci! -
Penso a certe foto di cresime e comunioni dove ritrovo volti di genitori, zii, cugine, o di matrimoni: questa qui chi era? Non mi ricordo, forse un’amica di mia madre. Di quante persone ho perso la memoria, se pure ne ho mai avuta, perché da piccoli non si conosce tutti, anche nella stretta cerchia familiare, e non a tutti si presta la stessa attenzione.
Il ricordo divaga: ricordo certe povere foto scattate da un fotografo che certamente avrà scarpinato con la sua macchina a soffietto e treppiede, chiamato per celebrare una morte, in cui è ritratta tutta la famiglia schierata, gli sguardi compunti e tristissimi, i volti scavati dalla fame e dalle malattie endemiche, di fronte al portone di una povera casa di campagna, quasi a esibire una bara tenuta obliqua perché si possa inquadrare il cadavere di un ragazzo, sull’attenti anche lui, le mani incrociate, il mento fasciato da una benda. Oppure le pose di tutti i componenti maschili di un villaggio, scugnizzi e uomini baffuti, molti dei quali armati di schioppi spianati, con volti da piccoli adulti o da briganti, ad esibire le carcasse dei lupi e celebrare il successo della caccia contro l’eterno nemico di pecore, greggi e, naturalmente, pastori. E le foto dei matrimoni, quelle di una volta, non da sogno romantico di un giorno su fondali storico-naturali esoticamente casarecci, ma solenni e ufficiali, in cui lo scatto è parte integrate della cerimonia. Documenti.
Per quasi cento anni la fotografia popolare è stata soprattutto documento e celebrazione, o strumento di reportage e giornalismo che cominciava a rendere il mondo più piccolo, portando nelle case le immagini di posti lontani o le testimonianze di sbigottito eroismo e di sopravvivenza, come le foto spedite alle famiglie, sfuggendo le maglie della censura, dal fango delle trincee maledette o dalle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo (vedi per es. il blog http://fotografiaprimaguerramondiale.blogspot.it )
A tutte queste foto, poveri documenti di cerimonie private o di eventi memorabili e cerimonie esse stesse, pensavo mentre visitavo la mostra Lost & Fount allo spazio Doozo del Macro di Testaccio a Roma. Lo tzunami che nell’undici marzo 2011 aveva sconvolto la costa occidentale del Giappone aveva ridotto le strade, le abitazioni, le scuole e i supermercati ad un ammasso di rovine e poltiglia. Dopo i primi aiuti ai sopravvissuti, i volontari hanno cominciato a raccogliere i pochi oggetti che potevano essere salvati. Tra essi, con delicatezza quasi religiosa, estrassero anche le foto di famiglia e gli album, e le fecero confluire nella palestra di una scuola elementare, le hanno pulite, salvandole quanto possibile, per poterle restituire alle famiglie disperse e consegnare loro il filo spezzato della memoria.
500 giovani ricercatori della Japan Society for Socio-Information Studies si sono fatti carico di questa pietosa incombenza pulendo, restaurando e digitalizzando tutta quella massa di documenti In tre mesi di lavoro il Salvage Memory Project ha restituito 7.600 album e 13.000 foto. Di esse, una parte è stata oggetto di una mostra itinerante che a Roma è stata aperta dalla Galleria Doozo, negli spazi del Macro a Testaccio.
I documenti privati, come potevano essere le foto di me e dei miei fratelli piccoli, raccolti da mani attente e gentili sono diventati così un momento di raccoglimento e di memoria pubblica.
La fotografia è anche questo: documento privato, reportage involontario, preziose tracce di ricordi che sopravvivono alle persone e ai stessi loro ricordi, e a quelli degli eventi, tracce di collettività, di popoli, di generazioni, di epoche, memorie.
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