Foto scattata da Donatella Marras
Anni fa, durante una escursione nel Rajastan con un mio amico, salimmo a Jailsamer, chiamata la “città d’oro” perché le case, con le loro elaborate decorazioni e la fortezza con i suoi bastioni sono costruite con la roccia dorata del deserto. Curiosando per le viuzze un pomeriggio conoscemmo un impiegato delle poste che dopo il pensionamento era venuto a vivere lì, per elezione. Dopo aver discorso piacevolmente di letteratura e di poesia nella fresca penombra dell’atrio, egli cortesemente ci invitò a visitare la sua casa e soprattutto le terrazze che davano direttamente sulle mura della città. Lo spettacolo era affascinante e sia io che il mio amico cominciammo a scattare foto.
- Pensate di poter portare con voi tutto questo? Ci chiese con ironia gentile il nostro ospite.
- No, certo, ma è per rinnovare il ricordo quando torneremo nel nostro paese.
Sorrise sornione. Dopo un po’ di tempo - e molti scatti - ci accorgemmo che il tempo era passato in fretta e che si avvicinava il tramonto. Fuori Jailsamer si erge una collina dalla quale all’ora del tramonto si può vedere la città accendersi di un rosso dorato di favoloso incanto. Per uso dei turisti hanno chiamato questo punto di osservazione “sunset point”: il luogo del tramonto. Scattare le foto dal sunset point a Jailsamer è d’obbligo come a Roma fotografare il colosseo o a Venezia il ponte di Rialto. Non volevamo mancare il rito e quindi ci accomiatammo dal nostro ospite declinando le sue cortesi offerte di ospitalità dicendo che dovevamo arrivare al “sunset point” in tempo. Sorrise di nuovo dondolando la testa come usano fare gli indiani e mormorò:
Ma anche questo è un “sunset point”. Non è dovunque un sunset point?Due lezioni di saggezza in mezz’ora avevano messo a nudo la nostra povertà mentale di turisti occidentali mascherata dall’illusione dello scatto.
Tra i milioni di foto che vengono scattate ogni giorno moltissime sono animate dall’illusoria brama di possesso, come l’ospite indiano ci aveva fatto notare. Oggi la facilità digitale di scatto e archiviazione, esasperata dalle opportunità offerte dal turismo di massa hanno moltiplicato per milioni di volte questa illusione, frantumandola in milioni di immagini volte a congelare le esperienze vive per poterle conservare nel frizer dei nostri computer, hard disk, memorie virtuali senza tatto e odore. Moltissime altro scatti sono animati da gioiosa ingenua vanagloria, per ostentare agli amici il proprio viaggio, ostentazione che la possibilità di condivisione istantanea con i social media può rendere compulsiva. A San Francisco è d’obbligo farsi fotografare con lo sfondo del Golden Gate. Quest’anno era l’anniversario di 75 anni del ponte e si prevedeva un enorme afflusso di turisti ma le previsioni del tempo dicevano nebbia, e quando a San Francisco è nebbia, è nebbia forte, soprattutto sulla baia, e la frenesia fotografica di immortalarsi con lo sfondo del famoso ponte rischiava di essere frustrata per la disperazione dei tour operator. Niente paura: è stato predisposta una tecnologia per cui, mediante opportuni trucchi elettronici, anche se ci fosse stata nebbia, era possibile essere fotografati sul ponte. Anzi, visto che ci si era, si poteva essere fotografati mentre si compivano spericolate esibizioni, naturalmente virtuali. Con la modica spesa di 5 euro gli amici e i colleghi avrebbero avuto di che sbalordirsi e di che rosicare.
Oppure l’occhio fotografico può essere un diaframma, farsi meccanico, lo sguardo può acquistare la velocità di un click che diventa leggero fino a sostituirsi allo sguardo stesso, la macchina fotografica può diventare una barrier, a risucchiarti l'occhio e la mente. Ogni click fa concorrenza alle altre centinaia di click e un reticolo di click costituisce uno scafandro che ci impedisce di nuotare nel mare dell'esperienza. La fotografia può rendere leggera la nostra espereinza rendendola meno significativa.
Nello stesso tempo, se “sparata” sugli altri - in genere persone di altre culture, marginali, vecchi, bambini - la fotografia può essere furto e violenza, ripetizione e amplificazione, anche se inconsapevole, di uno stigma. La macchina fotografica può essere un’arma che, cristallizzando le immagine della sofferenza, della marginalità, della sessualità o della stessa bellezza, priva le persone fotografate della loro storia, della loro umanità, della loro identità, relegandole nel loro “esotismo” e trasformandole in freak, in “mostri”, in stereotipi. L’operazione può essere tanto più violenta quanto più subdola e mascherata dalle buone intenzioni
Per tutte queste ragioni e sensibilità, dopo un periodo di amore per la fotografia, l’abbandonai quasi completamente. Ogni volta che prendevo in mano la macchina fotografica sentivo di togliere qualche cosa al fluire della vita, tradire il rapporto diretto con le esperienze e al rapporto con gli altri. La sentivo come un diaframma al mio sguardo e alla mia sensibilità e possibilità di comunicazione. Nel corso di quest'anno, in occasione di un viaggio a Boston e San Francisco e poi in Cornovaglia, sospinto da una nuova disponibilità d’animo verso, ho cominciato a riprendere confidenza con la macchina fotografica. E mi sono osservato, cercando di fare una fotografia consapevole. Ho così riscoperto il piacere del fotografare: in certe situazioni ogni scatto può essere un oh! e ogni oh! può diventare uno scatto. La macchina fotografica può diventare un modo di esprimere la propria meraviglia, la scheggia di sogno che c’è all’interno di ogni esperienza, particolarmente dentro esperienze eccitanti e che in qualche modo colpiscono la sensibilità, la bellezza di un istante che ci coglie di sorpresa. Possono essere anche esperienze di incubi che si decide di guardare in faccia. Mi sono accorto che in questo modo scattare significava rispettare e prendere sul serio la propria meraviglia, un modo per amplificare la propria esperienza di bambini. Rivedere le foto, poi, significava ritrovare quella meraviglia. La "bella" foto era quella che meglio esprimeva la meraviglia, che meglio trasformava la sensazione di meraviglia in immagine, ed esprimendola la amava. Direi di più, ho cominciato ad accorgermi che scattando esercitavo il mio spirito a dire oh! e l’atteggiamento di meraviglia. Questa prima fase del mio percorso, dunque, posso definirla come la fase della fotografia come esercizio di meraviglia. In questo modo ho anche rivalutato un poco la fotografia turistica che avevo tanto disprezzato. Forse che il turista scattando le foto non esprime un sentimento di meraviglia (per esempio l’emozione di vedere per la prima volta dal vivo un’icona che ha sempre visto “da lontano”, in immagine,o di cui ha sentito favoleggiare)? Certo è un po’ paradossale che questa emozione possa essere esorcizzata, trasformando di nuovo mediante la fotografia i luoghi e gli oggetti reali (o le persone vive) in immagini ed icone: il ciclo si chiude quasi a dimostrazione che non vi è spazio per il sogno in questa nostra società delle immagini. Ma in questo movimento vi è pur sempre qualche cosa di onirico che si muove tra l’esperienza vissuta e la sua trasformazione in riflesso immaginifico. E’ vero, il Ponte di Rialto è stato oggetto di milioni di fotografie e questo mi predispone ad avere, quando lo guardo, un'emozione di meraviglia e di riconoscimento insieme, ma la foto che io scatto è la mia foto. Gli archetipi su cui costruiamo i nostri sogni sono in fondo poco numerosi, ma essi diventano la forza che anima i nostri privatissimi sogni che hanno significato solo per noi.
Poi, in agosto, sono tornato in Val d’Aosta: ricordo le prime volte che salii questa valle l’entusiasmo con cui avevo scattato foto dei mondi micro e dei mondi macro, dei fiori e dei ghiacciai o dei castelli. Poi avevo abbandonato la pratica della fotografia: era finita la fase della meraviglia e mi abbandonavo al più tranquillo piacere del ritrovare. Quest’anno, avendo scongelato il rapporto con la macchina fotografica e riacquistato la mia disponibilità d’animo, ho ripreso a scattare. Mi sono accorto che questo era un modo non solo per ritrovare l’attenzione e quindi riprovare la meraviglia, ma anche per vivere con maggiore intensità i momenti presenti, prestare un’attenzione rinnovata a ciò che mi circondava, a ciò che mi era accanto. Una pratica di educazione dell’attenzione che aiuta a diradare la foschia della trascuratezza, del dare per scontato. E’ come riaprire i pori della sensibilità, rivedere di nuovo i colori, le forme, risentire le presenze e dialogare con esse. E‘ come una pratica di meditazione che coinvolge anche il respiro perché quando scatti devi sincronizzare il respiro. La tua esperienza esplode in continuo oh!, in una continua celebrazione del presente. Quando sali sullo stesso sentiero dopo tanti anni facilmente puoi non vedere più ciò che ti circonda (mettiamo dei fiori gialli spuntati nel greto bianco di un torrente in secca), puoi facilmente sostituire lo sguardo distratto alla vista consapevole e intensa che vede ogni cosa come se fosse “la prima volta”, con la meraviglia del bambino. La macchina fotografica ti suggerisce di fermarti, di ascoltare, di guardare, di tornare indietro, di aspettare (mettendo a dura prova la pazienza di chi sta con te, se non è coinvolto nella stessa passione!). Ci metti del tuo, perché fotografi delle cose e delle presenze vive attraverso le emozioni che esse ti suscitano. Quella fonte di acqua cristallina non è più soltanto una cosa là fuori, scontata, triviale, ma diventa unica, in quel momento, con quella luce, da quella angolazione, e il tuo sguardo, quello di cui sei responsabile nei confronti di te stesso, invece di produrre noia e indifferenza, produce meraviglia e bellezza. Scattare le foto ti aiuta a rispettare il tuo sguardo, non solo l’oggetto su cui esso si è posato in quella frazione di secondo.
Fu così che decisi di prendere di nuovo un po’ più sul serio il mio rapporto con la fotografia, rendendomi conto che dovevo imparare di più per poter migliorare il mio modo di capire e di fare fotografia. Le coincidenze sono spesso amiche: venuto a conoscenza di un corso di fotografia organizzato dalla rete shoot-for-change, orientato al reportage sociale e ispirato alla positività e alla valorizzazione delle persone, ho cominciato a frequentarlo, a prendere contatto con la rete e con “il mondo” della fotografia e del reportage sociale, a partecipare ai laboratori. Ho iniziato una nuova bella curva di apprendimento e di scoperta di nuovi significati della fotografia. Nel prossimo post cercherò di raccontare ciò che quest’esperienza mi ha insegnato e come mi sta aiutando a modificare il mio modo di vivere la fotografia e me stesso, racconterò il viaggio che sto facendo. Naturalmente la mia esperienza è simile a quella di milioni di persone che amano la fotografia. La condivisione nulla toglie però all'unicità delle esperienze. Anzi, raccontando queste emozioni sento più prossime queste nuove vicinanze e condivido un piacere che si trasforma nella pratica e anche grazie a queste vicinanze e queste presenze, mi aiuta a cresere, ad affinare la mia sensibilità a rispondere positivamente alla mia voce interiore. Ho scoperto che alcuni ex colleghi ed amici sono fotografi da tempo e non ne sapevo nulla, ho scoperto di altri pensionati che stanno facendo questa mia stessa esperienza di disponibilità, ho scoperto tanti giovani che vogliono partecipare a questo gioco. Quindi alimento, insieme al mio sentimento di meraviglia e di crescita nella meditazione, un vasto sentimento di gratitudine.
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