E una donna disse: parlaci del dolore.
E lui disse: Il dolore è lo spezzarsi del guscio che racchiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi affinché il suo cuore possa esporsi al sole,
così voi dovete conoscere il dolore.
E se riusciste a custodire in cuore la meraviglia per i prodigi quotidiani della vita,
il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia;
Accogliereste le stagioni del vostro cuore come avreste sempre accolto
le stagioni che passano sui campi.
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore.
Gran parte del vostro dolore è scelto da voi stessi.
E’ la pozione amara con la quale il medico che è in voi guarisce il vostro male.
Quindi confidate in lui e bevete il suo rimedio in serenità e silenzio.
Poiché la sua mano, benché pesante e rude, è retta dalla tenera mano dell’Invisibile,
E la coppa che vi porge, nonostante bruci le vostre labbra,
è stata fatta con la creta che il Vasaio ha bagnato di lacrime sacre.
Questa poesia di Kahil Gibram (da Il Profeta) potrebbe sintetizzare quello che mi ha dato l’incontro con la mediazione umanistica che ho fatto nel laboratorio Creative Mediation of Conflicts organizzato a Nardò da Studio Iris.
La mediazione umanistica considera che il conflitto esprime un dolore. Quindi compito del mediatore umanistico non è semplicemente trovare un accomodamento tra due parti, ma fare in modo che le parti in conflitto accettino di passare attraverso il dolore (il dolore proprio e il dolore dell’altra parte) per “spezzare il guscio che racchiude la loro conoscenza”. Per poter essere facilitatore di mediazione il mediatore deve innanzi tutto conoscere la strada, deve lui stesso capace di guardare al dolore proprio o altrui come una opportunità di conoscenza, accettandolo come si accolgono le stagioni che passano sui campi. Mi viene da sorridere pensando che non accogliamo neppure le stagioni, che quando è freddo ci lamentiamo continuamente del freddo e quando è caldo ci lamentiamo continuamente del caldo. Forse vorremmo vivere nel limbo di una eterna primavera, con uno zefiro costante e profumato, ma anche allora troveremmo modo di lamentarci delle zanzare, delle spine delle rose, del fatto che la sera fa troppo fresco, oppure del polline che ci fa starnutire, perché siamo diventati allergici anche alla primavera.
La strada della mediazione è quindi una strada di cambiamento, in cui si accoglie il dolore quando appare, con la consapevolezza che è "il medico che è in noi che ce lo manda "per guarire il male, per farci crescere nella conoscenza nostra e degli altri.
Ma per fare questo abbiamo bisogno degli altri e per questo il conflitto va trasformato in dolore condiviso, in incontro (anche se poi dalla strada intrapresa le persone decidono di separarsi, ma dopo essersi “toccate”).
Il dolore accettato produce il cambiamento.
Dobbiamo accettare il cambiamento, ma per fare questo occorre guardare in faccia la paura, il terrore del cambiamento.
Il cambiamento è benvenuto solo se sappiamo controllare la paura del cambiamento.
Allora il cambiamento diventa risorsa, ricchezza, opportunità. E la medicina del dolore ha funzionato.
Non è un passaggio facile. Abbiamo bisogno degli altri, ma abbiamo bisogno anche di costruire oggetti per stare in rapporto con gli altri, oggetti mediatori. Come Teseo può uccidere la Medusa usando il proprio scudo come specchio, perché se la guardasse direttamente in volto si trasformerebbe in pietra, abbiamo bisogno dello specchio per poter guardare il nostro dolore e mostrarlo agli altri, e inchinarci con grazia e compassione davanti al nostro dolore e al dolore degli altri.
Il dolore spesso ci appare inaspettato, imprevisto. Come la gioia, d’altra parte. Quindi per accogliere il dolore, per accogliere il cambiamento, bisogna accogliere l’inaspettato.
Come diceva Emerson: “Tutto ciò che sta per arrivare è sacro.”
Ma per riconoscere questa sacralità dobbiamo superare gli attaccamenti. Gli attaccamenti ci precludono la disposizione all’accoglienza dell’inaspettato, di “tutto ciò che sta per arrivare”.
Ho capito che la metodologia della mediazione umanistica deve molto a uno studio profondo della tragedia greca, dell’importanza delle sua scansione in teoria, crisi e catarsi per poter arrivare alla catarsi, intesa come rappresentazione, esplicitazione, riconoscimento delle emozioni e delle passioni mediante una azione drammaturgica. Le tecniche devono anche molto allo psicodramma e alla psicoterapia di Moreno e alle diverse forme di psicoterapia che vengono applicate alle situazioni di conflitto. Tuttavia non sono in grado di dire molto perché sono solo stato ospite di un incontro e non posso rispondere che delle mie impressioni, molto probabilmente parziali e da esterno. Posso solo testimoniare la conferma dell’importanza, in questi percorsi formativi, del gruppo e mi viene in mente la citazione di Moreno quando indica la ragione di questa importanza nel fatto che "L’intervento non è finalizzato solo a produrre un benessere psichico nelle singole persone, ma intende produrre nelle persone un apprendimento a relazionarsi in modo più adeguato con gli altri. Questo apprendimento non può avvenire che in un ambito di gruppo, nel quale si attenua l’Io e si evidenzia l’importanza della relazione, delle identificazioni e dell’incontro con l’altro".
Ritengo che questo tipo di percorsi possono svilupparsi a diversi livelli, con accentuazioni diverse e con finalità diverse, richiedono una consapevolezza etica e deontologica basata sulla conoscenza di sé e l’aver imparato innanzi tutto ad essere mediatori con sé stessi, una consapevolezza delle emozioni e la capacità di lasciarle scorrere.
Una riflessione importante che Francesca Genzano ha introdotto è inoltre quella del rapporto tra etica ed estetica. Un rapporto che non è esterno ma interno, e che fornisce il legame tra mediazione, accoglimento del dolore e dell’imprevisto, creatività ed etica. Un intreccio su cui è importante lavorare e riflettere.
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