lunedì 31 dicembre 2012

Anello mio bell'anello





Quest’anno complicato, per molti versi così penoso, per altri versi così entusiasmante, che ha già cominciato a finire in Australia e che nelle prossime ore finirà per tutti gli abitanti del globo, merita un saluto. Sempre di più, scorrendo i mesi, ha assunto le sembianze di un ponte sospeso verso un futuro che non riusciamo ancora a scorgere ma sul quale siamo incamminati in tanti, individui, famiglie e popoli. Come nella nostra cronaca politica italiana, nel mondo sono troppe le cose che stanno cambiando velocemente per poter essere pessimisti o ottimisti. Forse curiosi, perché curioso lo sono, e data l’accelerazione degli eventi qualche cosa riusciremo forse a vedere, o almeno a intuire, oltre questa fitta nebbia. Ed è inutile scorrere le pagine in fretta, saltare alle ultime pagine, perché non ci sono ultime pagine ma è tutto uno scorrere, rapide di una piena.
Intanto bisogna avere un punto di riferimento ravvicinato, come nella nebbia appunto, qualche elemento che ci possa far sentire vicini alle folle di donne, uomini e bambini che in India si stanno stringendo intorno alla loro Amanat, portatrici di una nuova consapevolezza che dice basta ma che guarda anche al futuro, ultime (per quest’anno) testimonianze di un contraddittorio e difficile, ma pieno di speranze,  rosario di “primavere” che si ostinano a  considerarsi primavere. Se la fanciulla che abbiamo imparato a chiamare Amanat è come un agnello sacrificale, in Pakistan Malalala, che con il suo impegno e il suo sacrificio ha innescato mobilitazioni mai viste, è stata con la sua semplicità una eroina. Giovane ragazza la prima, bambina di 14 anni la seconda, sono loro che ci prendono per mano in questa nebbia? Mi piace sentirmi spiritualmente vicino ai milioni di persone che sono usciti dalle loro case per seguirle, mi piace che  ci siano tra loro tante donne e tanti bambini che chiedono istruzione, che affermano la loro dignità, che indicano a viso aperto la strada per uscire dalla nebbia. Non dobbiamo essere così frettolosi, come se provassimo vergogna, a voltare la pagina delle altre primavere che ci sono state quest’anno, come se il pessimista che è in noi si fregasse le mani contento delle difficoltà che si sono trovate di fronte. Mentre il globo continua il suo giro portando a tutte le popolazioni la fine dell’anno e consegnando loro l’inizio dell’anno prossimo, dobbiamo essere pronti a non far cadere dalle mani di ciascuno di noi, il tesoro che ci viene consegnato, come nel gioco di “anello mio bell’anello”, a mani giunte nelle nostre mani giunte. 
Sento il bisogno di un “testimone” vicino che mi passi l’anello, o almeno la sua speranza. E  ne riconosco diversi, alcuni conosciuti da qualche tempo, altri scoperti quasi per caso anche in questi ultimi giorni, angeli che mi sfiorano e, come nel segno di pace, condividono  per un attimo il loro sogno perché diventi il mio sogno, per poi scomparire nella nebbia, con un sorriso. 






venerdì 30 novembre 2012

Uno degli obblighi etici più stimolanti




Nel giorno del riconoscimento dello Stato Palestinese come osservatore alle Nazioni Unite mi piace ricordare il concerto che Daniel Barenboim tenne a Gaza il 3 maggio 2011. Daniel Borenboim  è da anni impegnato in una missione di pace mediante la musica e la sua orchestra composta di elementi di molti paesi diversi, tra cui israeliani e palestinesi. 

Recentemente è stato pubblicato in Italia una raccolta di suoi interventi da cui riporto la seguente citazione, utile nella ricerca tra etica ed estetica, un tema su cui sto girando intorno nella mia riflessione.  

"Uno degli obblighi etici più stimolanti per un interprete è quello di trovare il giusto equilibrio tra intelletto ed emozione: L'intelletto non è una dote umana inferiore all'emozione, ma, nella musica, se prende il sopravvento può andare a detrimento della compiutezza di un'esecuzione. All'estremo opposto, è altrettanto dannoso quando l'emozione procede a briglia sciolta, senza la mano ferma del pensiero razionale. Se ne hanno l'opportunità intelletto ed emozione si potenziano e si completano a vicenda, sia nell'esecuzione sia nella composizione. Di fasto, diventano indivisibili. La grande musica npn è né puramente intellettuale, né puramente emotiva: è contraddistinta dall'equilibrio dei due aspetti, com'è nella natura umana" D. Barenboim, La musica è un tutto. Etica ed estetica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 17.




giovedì 22 novembre 2012

Documenti privati, pubbliche memorie




Ricordo d’infanzia. Nella Roma ancora ancora disseminata dalle macerie ma già meta delle prime ondate di immigrazione (nazionale, naturalmente) e dove il fronte del cemento armato cominciava con ritmo sostenuto ad espandersi nelle campagne, confinando bruscamente con borghetti e baracche, una volta l’anno o magari in occasione di un compleanno, o a Natale, i miei genitori facevano venire in casa un fotografo. Ricordo dove abitava, in un borghetto di case basse e strade sterrate, perché una volta andammo fino a casa sua per ritirare le foto. Sono buone pose di maniera, mia sorella di un anno, mio fratello di cinque, io di nove, i vestiti buoni per l’occasione, gli occhi preoccupati  fissi sull’obbiettivo della macchina fotografica (anzi sull’”uccellino”, un po’ sopra la spalla del fotografo, come egli diceva muovendo la mano sinistra là dove l’uccellino presumibilmente stava spiccando il volo, allora non si usava invitare a dire ciiis). Le guardo ora, sessant’anni dopo, vedo i nostri volti, gli abiti, ricostruisco con il senno di poi i nostri caratteri dalle espressioni e dalla posizione dei nostri corpi. Penso il miracolo di queste foto ricordo, diventate documenti anche per noi che vi siamo ritratti, come le foto di classe, scattate ogni anno nel cortile della Scuola,  con la maestra o il maestro, al centro o all’estremità di una delle fila, in cui il destino di ognuno ci sembra già scritto nel modo in cui i fiocchi dei grembiuli erano stretti, o inamidati o flosci, o dritti o sghembi. E successivamente nelle medie, con i professori più seri, l’energia e il carattere di ciascuno  a stento congelati nella posa dettata dalla regia del fotografo, con dietro le firme, documento nel documento, che ti fanno ricordare i nomi - Ma dove sei tu? Cercami, guarda se mi riconosci! - 
Penso a certe foto di cresime e comunioni dove ritrovo volti di genitori, zii, cugine, o di matrimoni: questa qui chi era? Non mi ricordo, forse un’amica di mia madre. Di quante persone ho perso la memoria, se pure ne ho mai avuta, perché da piccoli non si conosce tutti, anche nella stretta cerchia familiare, e non a tutti si presta la stessa attenzione. 
Il ricordo divaga: ricordo certe povere foto scattate da un fotografo che certamente avrà scarpinato con la sua macchina a soffietto e treppiede, chiamato per celebrare una morte, in cui è ritratta tutta la famiglia schierata, gli sguardi compunti e tristissimi, i volti scavati dalla fame e dalle malattie endemiche, di fronte al portone di una povera casa di campagna, quasi a esibire una bara tenuta obliqua perché si possa inquadrare il cadavere di un ragazzo, sull’attenti anche lui, le mani incrociate, il mento fasciato da una benda. Oppure le pose di tutti i componenti maschili di un villaggio, scugnizzi e uomini baffuti, molti dei quali armati di schioppi spianati, con volti da piccoli adulti o da briganti, ad esibire le carcasse dei lupi e celebrare il successo della caccia contro l’eterno nemico di pecore, greggi e, naturalmente, pastori.  E le foto dei matrimoni, quelle di una volta, non da sogno romantico di un giorno su fondali storico-naturali esoticamente casarecci, ma solenni e ufficiali, in cui lo scatto è parte integrate della cerimonia. Documenti.
Per quasi cento anni la fotografia popolare è stata soprattutto documento e celebrazione, o strumento di reportage e giornalismo che cominciava a rendere il mondo più piccolo, portando nelle case le immagini di posti lontani o le testimonianze di sbigottito eroismo e di sopravvivenza, come le foto spedite alle famiglie, sfuggendo le maglie della censura, dal fango delle trincee maledette o dalle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo (vedi per es. il blog http://fotografiaprimaguerramondiale.blogspot.it )
A tutte queste foto, poveri documenti di cerimonie private o di eventi memorabili e cerimonie esse stesse, pensavo mentre visitavo la mostra Lost & Fount allo spazio Doozo del Macro di Testaccio a Roma. Lo tzunami che nell’undici marzo 2011 aveva sconvolto la costa occidentale del Giappone aveva ridotto le strade, le abitazioni, le scuole e i supermercati ad un ammasso di rovine e poltiglia. Dopo i primi aiuti ai sopravvissuti, i volontari hanno cominciato a raccogliere i pochi oggetti che potevano essere salvati. Tra essi, con delicatezza quasi religiosa, estrassero anche le foto di famiglia e gli album, e le fecero confluire nella palestra di una scuola elementare, le hanno pulite, salvandole quanto possibile, per poterle restituire alle famiglie disperse e consegnare loro il filo spezzato della memoria. 
500 giovani ricercatori della Japan Society for Socio-Information Studies si sono fatti carico di questa pietosa incombenza pulendo, restaurando e digitalizzando tutta quella massa di documenti  In tre mesi di lavoro  il Salvage Memory Project ha restituito 7.600 album e 13.000 foto. Di esse, una parte è stata oggetto di una mostra itinerante che a Roma è stata aperta dalla Galleria Doozo, negli spazi del Macro a Testaccio. 
I documenti privati, come potevano essere le foto di me e dei miei fratelli piccoli, raccolti da mani attente e gentili sono diventati così un momento di raccoglimento e di memoria pubblica. 
La fotografia è anche questo: documento privato, reportage involontario, preziose tracce di ricordi che sopravvivono alle persone e ai stessi loro ricordi, e a quelli degli eventi, tracce di collettività, di popoli, di generazioni, di epoche, memorie. 

giovedì 15 novembre 2012

Il piacere di fotografare



Foto scattata da Donatella Marras

Anni fa, durante una escursione nel Rajastan con un mio amico, salimmo a Jailsamer, chiamata la “città d’oro” perché le case, con le loro elaborate decorazioni e la fortezza con i suoi bastioni sono costruite con la roccia dorata del deserto. Curiosando per le viuzze un pomeriggio conoscemmo un impiegato delle poste che dopo il pensionamento era venuto a vivere lì, per elezione. Dopo aver discorso piacevolmente di letteratura e di poesia nella fresca penombra dell’atrio, egli cortesemente ci invitò a visitare la sua casa e soprattutto le terrazze che davano direttamente sulle mura della città. Lo spettacolo era affascinante e sia io che il mio amico cominciammo a scattare foto. 
- Pensate di poter portare con voi tutto questo? 
Ci chiese con ironia gentile il nostro ospite. 
- No, certo, ma è per rinnovare il ricordo quando torneremo nel nostro paese.
Sorrise sornione. Dopo un po’ di tempo - e molti scatti - ci accorgemmo che il tempo era passato in fretta e che si avvicinava il tramonto. Fuori Jailsamer si erge una collina dalla quale all’ora del tramonto si può vedere la città accendersi di un rosso dorato di favoloso incanto. Per uso dei turisti hanno chiamato questo punto di osservazione “sunset point”: il luogo del tramonto. Scattare le foto dal sunset point a Jailsamer è d’obbligo come a Roma  fotografare il colosseo o a Venezia il ponte di Rialto. Non volevamo mancare il rito e quindi ci accomiatammo dal nostro ospite declinando le sue cortesi offerte di ospitalità dicendo che dovevamo arrivare al “sunset point”  in tempo. Sorrise di nuovo dondolando la testa come usano fare gli indiani e mormorò: 
Ma anche questo è un “sunset point”. Non è dovunque un sunset point?
Due lezioni di saggezza in mezz’ora avevano messo a nudo la nostra povertà mentale di turisti occidentali mascherata dall’illusione dello scatto.


Tra i milioni di foto che vengono scattate ogni giorno moltissime sono animate dall’illusoria brama di possesso, come l’ospite indiano ci aveva fatto notare. Oggi la facilità digitale di scatto e archiviazione, esasperata dalle opportunità offerte dal turismo di massa  hanno moltiplicato per milioni di volte questa illusione, frantumandola in milioni di immagini volte a congelare le esperienze vive per poterle conservare nel frizer dei nostri computer, hard disk, memorie virtuali senza tatto e odore.  Moltissime altro scatti sono animati da gioiosa ingenua vanagloria, per ostentare agli amici il proprio viaggio, ostentazione che la possibilità di condivisione istantanea con i social media può rendere compulsiva.  A San Francisco è d’obbligo farsi fotografare con lo sfondo del Golden Gate. Quest’anno era l’anniversario di 75 anni del ponte e si prevedeva un enorme afflusso di turisti ma le previsioni del tempo dicevano nebbia, e quando a San Francisco è nebbia, è nebbia forte, soprattutto sulla baia, e la frenesia fotografica di immortalarsi con lo sfondo del famoso ponte rischiava di essere frustrata per la disperazione dei tour operator. Niente paura: è stato predisposta una tecnologia per cui, mediante opportuni trucchi elettronici, anche se ci fosse stata nebbia, era possibile essere fotografati sul ponte. Anzi, visto che ci si era, si poteva essere fotografati mentre si compivano spericolate esibizioni, naturalmente virtuali. Con la modica spesa di 5 euro gli amici e i colleghi avrebbero avuto di che sbalordirsi e di che rosicare.

Oppure l’occhio fotografico può essere un diaframma, farsi meccanico, lo sguardo può acquistare la velocità  di un click che diventa leggero fino a sostituirsi allo sguardo stesso, la macchina fotografica può diventare una barrier, a risucchiarti l'occhio e la mente. Ogni click fa concorrenza alle altre centinaia di click e un reticolo di click costituisce uno scafandro che ci impedisce di nuotare nel mare dell'esperienza. La fotografia può rendere leggera la nostra espereinza rendendola meno significativa. 
Nello stesso tempo, se “sparata” sugli altri - in genere  persone di altre culture, marginali, vecchi, bambini - la fotografia può essere furto e violenza, ripetizione e amplificazione, anche se inconsapevole, di uno stigma. La macchina fotografica può essere un’arma che, cristallizzando le immagine della sofferenza, della marginalità, della sessualità o della stessa bellezza, priva le persone fotografate della loro storia, della loro umanità, della loro identità, relegandole nel loro “esotismo”  e trasformandole in freak, in “mostri”, in stereotipi. L’operazione può essere tanto più violenta quanto più subdola e mascherata dalle buone intenzioni 
Per tutte queste ragioni e sensibilità, dopo un periodo di amore per la fotografia, l’abbandonai quasi completamente. Ogni volta che prendevo in mano la macchina fotografica sentivo di togliere qualche cosa al fluire della vita, tradire il rapporto diretto con le esperienze e al rapporto con gli altri. La sentivo come un diaframma al mio sguardo e alla mia sensibilità e possibilità di comunicazione. Nel corso di quest'anno, in occasione di un viaggio a Boston e San Francisco e poi in Cornovaglia, sospinto da una nuova disponibilità d’animo verso, ho cominciato a riprendere confidenza con la macchina fotografica. E mi sono osservato, cercando di fare una fotografia consapevole. Ho così riscoperto il piacere del fotografare: in certe situazioni ogni scatto può essere un oh! e ogni oh! può diventare uno scatto. La macchina fotografica può diventare un modo di esprimere la propria meraviglia, la scheggia di sogno che c’è all’interno di ogni esperienza, particolarmente dentro esperienze eccitanti e che in qualche modo colpiscono la sensibilità, la bellezza di un istante che ci coglie di sorpresa. Possono essere anche esperienze di incubi che si decide di guardare in faccia. Mi sono accorto che in questo modo scattare significava rispettare e prendere sul serio la propria meraviglia, un modo per amplificare la propria esperienza di bambini. Rivedere le foto, poi, significava ritrovare quella meraviglia. La "bella" foto era quella che meglio esprimeva la meraviglia, che meglio trasformava la sensazione di meraviglia in immagine, ed esprimendola la amava. Direi di più, ho cominciato ad accorgermi che scattando esercitavo il mio spirito a dire oh! e l’atteggiamento di meraviglia. Questa prima fase del mio percorso, dunque, posso definirla come la fase della fotografia come esercizio di meraviglia. In questo modo ho anche rivalutato un poco la fotografia turistica che avevo tanto disprezzato. Forse che il turista scattando le foto non esprime un sentimento di meraviglia (per esempio l’emozione di vedere per la prima volta dal vivo un’icona che ha sempre visto “da lontano”, in immagine,o di cui ha sentito favoleggiare)? Certo è un po’ paradossale che questa  emozione possa essere esorcizzata,  trasformando di nuovo mediante la fotografia i luoghi e gli oggetti reali (o le persone vive) in immagini ed icone: il ciclo si chiude quasi a dimostrazione che non vi è spazio per il sogno in questa nostra società delle immagini. Ma in questo movimento vi è pur sempre qualche cosa di onirico che si muove tra l’esperienza vissuta e la sua trasformazione in riflesso immaginifico.  E’ vero, il Ponte di Rialto è stato oggetto di milioni di fotografie e questo mi predispone ad avere, quando lo guardo, un'emozione di meraviglia e di riconoscimento insieme, ma la foto che io scatto è la mia foto. Gli archetipi su cui costruiamo i nostri sogni sono in fondo poco numerosi, ma essi diventano la forza che anima i nostri privatissimi sogni che hanno significato solo per noi. 
Poi, in agosto, sono tornato in Val d’Aosta: ricordo le prime volte che salii questa valle l’entusiasmo con cui avevo scattato foto dei mondi micro e dei mondi macro, dei fiori e dei ghiacciai o dei castelli. Poi avevo abbandonato la pratica della fotografia: era finita la fase della meraviglia e mi abbandonavo al più tranquillo piacere del ritrovare. Quest’anno, avendo scongelato il rapporto con la macchina fotografica e riacquistato la mia disponibilità d’animo, ho ripreso a scattare. Mi sono accorto che questo era un modo non solo per ritrovare l’attenzione e quindi riprovare la meraviglia, ma anche per vivere con maggiore intensità i momenti presenti, prestare un’attenzione rinnovata a ciò che mi circondava, a ciò che mi era accanto. Una pratica di educazione dell’attenzione che aiuta a diradare la foschia della trascuratezza, del dare per scontato. E’ come riaprire i pori della sensibilità, rivedere di nuovo i colori, le forme, risentire le presenze e dialogare con esse. E‘ come una pratica di meditazione che coinvolge anche il respiro perché quando scatti devi sincronizzare il respiro. La tua esperienza esplode in continuo oh!, in una continua celebrazione del presente. Quando sali sullo stesso sentiero dopo tanti anni facilmente puoi non vedere più ciò che ti circonda (mettiamo dei fiori gialli spuntati nel greto bianco di un torrente in secca), puoi facilmente  sostituire lo sguardo distratto alla vista consapevole e intensa che vede ogni cosa come se fosse “la prima volta”, con la meraviglia del bambino. La macchina fotografica ti suggerisce di fermarti, di ascoltare, di guardare, di tornare indietro, di aspettare (mettendo a dura prova la pazienza di chi sta con te, se non è coinvolto nella stessa passione!). Ci metti del tuo, perché fotografi delle cose e delle presenze vive attraverso le emozioni che esse ti suscitano. Quella fonte di acqua cristallina non è più soltanto una cosa là fuori, scontata, triviale, ma diventa unica, in quel momento, con quella luce, da quella angolazione, e il tuo sguardo, quello di cui sei responsabile nei confronti di te stesso, invece di produrre noia e indifferenza, produce meraviglia e bellezza. Scattare le foto ti aiuta a rispettare il tuo sguardo, non solo l’oggetto su cui esso si è posato in quella frazione di secondo. 
Fu così che decisi di prendere di nuovo un po’ più sul serio il mio rapporto con la fotografia, rendendomi conto che dovevo imparare di più per poter migliorare il mio modo di capire e di fare fotografia. Le coincidenze sono spesso amiche: venuto a conoscenza di un corso di fotografia organizzato dalla rete shoot-for-change, orientato al reportage sociale e ispirato alla positività e alla valorizzazione delle persone, ho cominciato a frequentarlo, a prendere  contatto con la rete e con “il mondo” della fotografia e del reportage sociale, a partecipare ai laboratori. Ho iniziato una nuova bella curva di apprendimento e di scoperta di nuovi significati della fotografia. Nel prossimo post cercherò di raccontare ciò che quest’esperienza mi ha insegnato e come mi sta aiutando a modificare il mio modo di vivere la fotografia e me stesso, racconterò il viaggio che sto facendo. Naturalmente la mia esperienza è simile a quella di milioni di persone che amano la fotografia. La condivisione nulla toglie però all'unicità delle esperienze. Anzi, raccontando queste emozioni sento più prossime queste nuove vicinanze e condivido un piacere che si trasforma nella pratica e anche grazie a queste vicinanze e queste presenze, mi aiuta a cresere, ad affinare la mia sensibilità a rispondere positivamente alla mia voce interiore. Ho scoperto che alcuni ex colleghi ed amici sono fotografi da tempo e non ne sapevo nulla, ho scoperto di altri pensionati che stanno facendo questa mia stessa esperienza di disponibilità, ho scoperto tanti giovani che vogliono partecipare a questo gioco.  Quindi alimento, insieme al mio sentimento di meraviglia e di crescita nella meditazione, un vasto sentimento di gratitudine.

sabato 13 ottobre 2012

La gioia del camminare






Spesso capita di sentire parlare di un chilometro come di una distanza enoooorme!  Da percorrere a piedi, naturalmente. Il rapporto tra corpo e ambiente si è spezzato in molti modi, uno di questi è la perdita del camminare come pratica normale di locomozione ma anche di pensiero, di comunicazione di costruzione della visione. Nel mondo in cui lo show si è sostituito allo sguardo le immagini scorrono davanti a corpi immobili, a occhi sgranati, pura ottica di ricezione tra impulsi luminosi e cervello. Camminare significa riconquistare lo sguardo, la capacità di essere nel mondo e non solo spettatori del mondo. Non è solo una questione di salute fisica, di circolazione del sangue, di regolazione del metabolismo, ma di respiro, di ritmo, di meditazione, di sguardo, appunto.

Dall'introduzione del libro di Rebecca Solnit, Storia del camminare (Mondadori 2002)

"Da dove si comincia? I muscoli si tendono. Una gamba è il pilastro che sostiene il corpo eretto tra cielo e terra. L'altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra. Tutto il peso del corpo rolla in avanti sull'avampiede. L'alluce prende il largo, ed ecco, il peso del corpo, in delicato equilibrio, si sposta di nuovo.Le gambe si danno il cambio. Si parte con un passo, poi un altro e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare. La cosa più ovvia e più oscura del mondo è questo camminare, che si smarrisce così facilmente nella religione, la filosofia, il paesaggio, la politica urbana, l'anatomia, l'allegoria e il crepacuore.
La storia del camminare è una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno di noi. La storia corporea del camminare è quella dell'evoluzione del bipedismo e dell'anatomia umana. Per la maggior parte del tempo, camminare è un atto puramente pratico, il mezzo locomotorio inconsapevole tra due luoghi. Trasformarlo in un'indagine, un rituale, una meditazione, è farne un particolare sottoinsieme del camminare, fisiologicamente simile ma filosoficamente dissimile al modo in cui il postino porta la posta e l'impiegato prende il treno. Il che vuol dire che la materia del camminare riguarda, in un certo senso, il modo in cui attribuiamo significati particolare ad atti universali.  Come il mangiare o il respirare, così il camminare può essere investito di significati culturali completamente diversi, da quelli erotici a quelli spirituali, da quelli sovversivi a quelli artistici. E' qui che questa sua storia comincia a fare parte della storia dell'immaginazione e della cultura, e della storia dei generi di piacere, di libertà e di significato che vengono perseguiti in tempi diversi da diversi tipi di camminate e di camminatori. L'immaginazione ha modellato gli spazi che attraversa, e da questi è stata a propria volta modellata. Il camminare ha creato sentieri, strade, rotte commerciali: ha generato concezioni di spazio locali e transcontinentali: ha conformato città, parchi; prodotto mappe, guide, attrezzature e, ancora, una vasta biblioteca di racconti e poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, spedizioni alpinistiche, vagabondaggi, e anche di picnic estivi. I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci riportano ai luoghi di questa storia".

Ricordo il piacere di libertà la prima volta che misi gli scarponi ai piedi e mossi i miei primi passi sui sentieri di montagna e poi il piacere di guardarsi intorno e vedere la vallata lontana da cui si è partiti solo tre, quattro ore prima, il senso di forza, sì, di potere, che quella distanza coperta solo con i miei piedi mi trasmetteva! Come è povera al confronto l'esperienza di chi raggiunge un punto elevato da cui si scopre un paesaggio mozzafiato in un quarto d'ora di funivia!
E ricordo, ancora prima, l'emozione della prima volta che andai con mio padre in montagna, sopra Monte Luco, che sovrasta Spoleto, quando mio padre mi disse: "Qui dovremmo essere oltre i mille metri!"

Domani in tutta Italia gli amanti del camminare, gli amanti dello slow travel,  si sono dati appuntamento per trovare insieme al gioia di riconquistare lo spazio e lo sguardo. E' un atto politico di scoperta del territorio, dei suoi anfratti, di ciò che non si vede spostandosi con la macchina o dall'autobus.

Per maggiori informazioni vedi: www.gornatadelcamminare@federtrek.com

Per altri libri, oltre a quello della Sonit (Rebecca Solnit, Storia del camminare, Mondadori, 2002)

Italo Testa (a cura di), Pensieri viandanti. Antropologia ed estetica del camminare, Diabasis, 2008
Italo Testa (a cura di), Pensieri viandanti 2. Etica del camminare, Diabasis, 2008.
Demetrio Duccio, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Cortina Raffaello, 2005
Wolkescapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi 2006.
Sabelli Fioretti Claudio, Lauro Giorgio, A piedi, Chiarelettere, 2007.
E altri.....

Naturalmente sarebbe meglio andare a piedi dal libraio piuttosto che ordinarli con Amazon facendo camminare....  il postino.


venerdì 12 ottobre 2012

Marte



Da Cronache marziane, il capolavoro di Ray Bradbury (Oscar Mondadori, numerose ristampe). pp. 130 e sgg.

Incontro di notte

Prima di avviarsi su per le colline azzurre, Tomàs Gomez si fermò a fare il pieno di benzina davanti al solitario posto di rifornimento.
- Un luogo piuttosto isolato questa, eh, nonno? - disse Tomàs.
- Non c'è male.
- Ti piace Marte, nonno?
- Molto.C'è sempre qualcosa di nuovo. Decisi quando venni qui, l'anno scorso, di non aspettarmi nulla, di non chiedere nulla, di non stupirmi di nulla. Dobbiamo dimenticare la Terra e la vita che ci facevamo. Dobbiamo tener presente il motivo per cui siamo qui e la diversità di questo mondo. Io mi sono divertito straordinariamente solo a vedere il tempo che ci fa, su questo pianeta. E' meteorologia marziana, capisci? Caldo infernale di giorno, freddo dannato la notte. E la soddisfazione che si ha a vedere come sono diversi i fiori, come è differente la pioggia, dove la metti? Sono venuto su Marte quando sono andato in pensione e ho voluto andare in pensione in un posto dove tutto fosse diverso. Un vecchio ha bisogno di avere intorno delle cose diverse. I giovani si annoiano a parlare con un vecchio e gli altri vecchi lo annoiano terribilmente. Per cui pensai che la cosa migliore per me fosse scegliere un posto così diverso che bastasse aprire gli occhi intorno per divertirsi. Sono riuscito a ottenere questa stazione di rifornimento. Se ci sarà da sgobbare troppo, mi trasferirò su qualche altra arteria meno densa di traffico, dove mi sia possibile guadagnare abbastanza da vivere e insieme avvertire la differenza delle cose, qui.
- E l'hai pensata giusta, nonno - disse Tomàs, le mani brune abbandonate languidamente sul volante. Era contento, a suo agio. Aveva lavorato sodo per dieci giorni di fila in una delle nuove colonie ed ora sveva due giorni di ferie e si stava recando a una festicciola.
- Non c'è più nulla che mi stupisca, ormai riprese il vecchio.
Mi limito a guardare intorno. A fare prove. Se non puoi prendere Marte per quello che è, tanto vale tornare sulla Terra. Tutto è pazzo quassù, il suolo, l'aria, i canali, gli indigeni (io non ne ho visto mai uno, ma sento dire che se ne vedono) gli orologi.
Perfino il mio orologio si comporta da pazzo. Perfino il tempo fa il pazzo quassù. Talvolta sento che sono qui tutto solo, che non c'è nessun altro su tutto questo pianeta matto. Ci scommetterei non so che, su questo pianeta. A volte è come se non avessi più di otto anni, col corpo tutto striminzito e ogni altra cosa grande, alta, che mi schiaccia. Gesù, questo è il pianeta che ci vuole a un vecchio. Mi tiene sveglio, mi tiene allegro, Vuoi sapere cos'è Marte? E' come un regalo che mi fecero per Natale settant'anni fa (non so se ne hai mai avuto uno)... li chiamavano caleidoscopi,  eran fatti di pezzettini di vetro e di stoffa, di perline, di cianfrusaglie, insomma. Lo guadavi controluce e... ti toglieva il fiato. Quanti disegni, immagini, figure, ci vedevi! Ebbene, Marte è così. Godilo. Non chiedergli di essere qualche altra cosa. Gesù, ma lo sai che quella magnifica strada fra i monti, costruiti dai marziani, ha più di sedici secoli ed è ancora in buone condizioni? E' un dollaro e cinquanta cents.  Grazie e buon viaggio.
Tomàs si lanciò sull'antica autostrada, ridendo in silenzio tra sé.

(.....)




lunedì 8 ottobre 2012

Curve di apprendimento



Da quando, il primo  di gennaio del 2012  ho smesso di fare il mio lavoro "per raggiunto limite di età" ho dovuto abbandonare molte consuetudini che prima cadenzavano e riempivano il mio tempo e focalizzavano le mie energie e il mio impegno e nello stesso tempo sono entrato in una nuova fase di apprendimenti accelerati.
Ogni cambiamento significativo della  vita rende obsolete  molte informazioni, abilità, competenze che ci davano una certa sicurezza e prevedibilità nei nostri comportamenti, nelle aspettative degli altri, nelle nostre stesse aspettative e ciò crea inevitabilmente un qualche tipo di sbilanciamento anche perché,  insieme, cessano anche i rapporti con le persone con cui queste competenze erano condivise. In una certa misura muori, tanto più se avevi vissuto la tua vita precedente con passione ed entusiasmo, come una trasmissione e uno scambio di valori. Penso che questa morte - e il portato di vulnerabilità che essa comporta - vada guardata in faccia, non vada ignorata, vada vista come una opportunità di distacco, di alleggerimento. Penso che dobbiamo arricchirci dell'esperienza della nostra vulnerabilità. Nello stresso tempo, quasi senza interruzione, è necessario dischiudersi alla disponibilità di gestire situazioni nuove, per noi spesso inedite, sia che siano il frutto di una meccanica quieta invasione di piccole incombenze che svolgevi pure prima ma cui avevi dedicato scarsa attenzione, sia che  si tratti di nuovi impegni e nuove attività. Non tutti affrontano nello stesso modo questo cambiamento. Per molti è faticoso, stressante, umiliante. Quanti uomini, rimasti soli per la perdita del proprio coniuge, non riescono ad imparare a cucinarsi neppure un piatto di pasta, o a stirarsi una camicia, o si sentono sminuiti a farlo, oppure quante donne si trovano ignoranti e incapaci ad affrontare questioni burocratiche o amministrative? Quante persone che hanno avuto un incidente devono imparare di nuovo a camminare? In generale, quanti uomini e donne hanno grandissime difficoltà a seguire i cambiamenti tecnologici che rendono molto meno efficaci le loro conoscenze e i loro comportamenti? Ci si sente di nuovo analfabeti, cioè non più in grado di svolgere le mansioni quotidiane che consentono di essere membri attivi e responsabili della comunità e della famiglia in cui si vive.
Negli ultimi decenni abbiamo, volenti o nolenti, imparato a considerare che non una, ma più volte nel corso della nostra vita dobbiamo esercitare la virtù del distacco e impegnarci a imparare cose nuove, a riscoprire e mettere alla prova noi stessi in modo e in ambienti nuovi. La parola d'ordine che domina in questo campo ormai da anni è quello dell'apprendimento continuo per tutto l'arco della vita (life long learning). Significa che per poter (continuare ad) essere persone  consapevoli, cittadini e lavoratori competenti, uomini e donne responsabili delle nostre azioni, dobbiamo essere in grado di  stare  dentro un processo di apprendimento continuo, che non si arresta mai. Quando poi ci sono dei cambiamenti radicali nella propria vita (voluti o non voluti, indesiderati o anche desiderati) la nostra capacità di cambiare e di imparare cose nuove, di entrare in un nuovo periodo di apprendistato, diventa critica. Comunque, siamo sempre, almeno in parte, neofiti.
Essere neofiti è elettrizzante, perfino entusiasmante, e anche frustrante. Elettrizzante perché il fatto di imparare cose nuove stimola la curiosità, risveglia le nostre capacità latenti, produce impegno e dà una sensazione di fioritura, apre nuove opportunità, crea situazioni inedite che ci fanno scoprire cose nuove di noi stessi, permette di intessere nuove relazioni: insomma è l'occasione per ricominciare a sognare è una scarica di energia. Frustrante perché all'inizio dei nuovi percorsi si ridiventa ignoranti, impacciati, le cose da imparare ti sembrano troppe (non ce la farò mai!), diventi l'ultimo arrivato e temi di essere giudicato male. La frustrazione può spingere  a scappare, a rinunciare, a gettare la spugna. In questa fase è importante sapere come vivere la nuova situazione di apprendistato e di noviziato, riuscire a non scoraggiarsi, imparare a fare un passo dopo l'altro senza fretta e senza abbattersi, saper vedere i passi avanti compiuti.
Per vivere ogni fase della propria vita come nuova, occorre imparare con umiltà cose nuove e quindi avere le motivazioni necessarie, proporselo quindi, questo apprendimento,  individuare il livello sostenibile delle nostre aspettative, avere la giusta scala su cui valutare i nostri sviluppi, i passi avanti compiuti.
Non c'è dubbio che in tutto ciò l'ambiente conta moltissimo. Se l'ambiente è un learning environment, un ambiente  in cui l'apprendimento è incoraggiato,  apprezzato e quindi rispettato e stimolato, si è molto facilitati. Purtroppo spesso non è così e quindi occorre avere al proprio interno la forza e l'energia per non farci scoraggiare dall'ambiente e sapere come sfruttare al meglio ciò comunque che l'ambiente ci offre, anche con una certa ironia (sempre utile saper sorridere!). Aiuta sempre però trovare dei maestri.

In questo periodo di mio orientamento alla condizione di pensionato (o "diversamente attivo") ho attraversato diverse fasi, e ognuna di esse ha rappresentato una sfida che ricercavo perché solo impegnandomi in nuove curve di apprendimento potevo sfruttare al meglio le nuove opportunità che mi si aprivano: il primo passo l'ho compiuto passando dal PC al MAC: cambiare "ambiente" era un modo per rompere delle abitudini consolidate  e date le caratteristiche grafiche del MAC ciò significata anche entrare in un ambiente tecnologico che simbolicamente segnava un passaggio "estetico" e mi imponeva di imparare nuove routine, poi ho aperto e seguito questo blog, imparando poco per volta. In queste due svolte ho  trovato sempre qualcuno che mi ha aiutato, che mi ha dato i consigli utili ed ho avuto un piccolo riscontro (la settimana scorsa ho superato i 2000 link dall'inizio dell'anno e per quanto siano una piccola cosa, sono un conforto in questo sforzo). E poi mi sono lanciato in tante cose, la scrittura e la lettura disordinata, onnivora, forsennata ed entusiasmante di scrittori  diversissimi, da Irène Némirovsky a Antonio Tabucchi, da Chuck Palahniuk a Giorgio Fontana, da Lurent Mauvigner a... Dickens: passare da uno stile di scrittura e di narrazione ad un altro radicalmente diverso è un vero sballo, sollecita l'attivazione di registri diversi di sensibilità e di espressione, riattiva gamme di emozioni che si erano quasi atrofizzate, risveglia l'attenzione. Poi ho cominciato a fare tante foto a San Francisco, a Boston, in Cornovaglia, in Val d'Aosta, mi ha ripreso la vecchia passione della fotografia, una delle passioni che non ho coltivato sufficientemente nella mia vita. Mano a mano che mi entusiasmavo della meditazione che ogni scatto comporta, della sintesi potente che ogni scatto (e il lavoro su di esso) produce, mi rendevo conto dei miei limiti e desideravo andare oltre. E allora per una serie di coincidenze (queste coincidenze!) ho saputo di un corso organizzato dalla rete Shoot for Change (S4C). Il corso mira non solo a insegnare le tecniche di base della fotografia ma è animato da una visione: il reportage sociale,  fare foto per raccontare storie. In particolare storie positive (apprezzative) legate al mondo del volontariato, rifuggendo dalla tentazione dell'esotico e del virtuosismo.
Ho fatto già due incontri e la prima uscita in gruppo. Su questa spinta ho cominciato a viaggiare in internet perdendomi tra corsi e siti fotografici. Il mondo della fotografia è veramente enorme, ma anche ispirato a valore democratici e ad un grande apprezzamento per l'apprendimento, un mare di giovanissimi e di meno giovani accomunati da una passione comune. Se considero la mia curva di apprendimento di questa settimana posso dirmi molto soddisfatto. Naturalmente mi sento ancora una assoluta nullità, la spontaneità con cui ho scattato migliaia di (meravigliose!) foto negli ultimi mesi grazie dall'automatico, tornando al manuale si è all'inizio come bloccata. Ma piano piano ho riprovato il piacere di combinare i valori del diaframma e dell'obbiettivo scorrendo con le dita sulle ghiere. Alla fine del corso dovrò fare un reportage fotografico ed ho già delle proposte! Forse il mio occhio "sociologico" riuscirà ad esprimersi con i nuovi mezzi espressivi. Sono entrato in una nuova curva di apprendimento in cui conoscenza, etica, estetica e relazioni possono alimentarsi a vicenda sostenuti da una nuova competenza tecnologica. E in questo percorso ho trovato persone che mi sosterranno e con cui, soprattutto, potrò condividere l'impegno e l'esperienza. I nuovi apprendimenti e l'entrata in nuove reti fa tutt'uno. Da tutto ciò ricevo una carica di energia che spero di ricambiare a breve.
La cosa più semplice ed efficace che posso fare è come sempre dare dei link.
A Roma, a cura di MACRO si sta svolgendo l'XI festival internazionale della fotografia dedicato al lavoro (ai lavori): Works
Inoltre, ricordo la recente scomparsa di una grande figura internazionale del reportage fotografico: Michelle Vignes

Un'ultima considerazione su cui penso di riflettere nel prossimo post. In questo percorso, e grazie anche alla mia particolare esperienza, sto avendo modo di ripensare al rapporto complesso e fertile tra professionalismo e volontariato.

martedì 2 ottobre 2012

Alleggerirsi


Alleggerirme di Eugenio Cirese, maestro, poeta e studioso molisano 

Z’affolla lu recuorde:
nu pise ogne tante pe iettarle.
Alleggerirme.
Chi sa: ze chiana meglie chiù leggiere.
Ze po’ pure vulà com’a na fronda;
e chelle che ze lassa 
nen va tutte pe terra:
sempre ce sta quaccune
che l’arraccoglie.
Nu vizie che t’è l’ome: 
arraccoglie pe terra.
Appesantirse

Si affolla il ricordo:/un peso ogni tanto per gettarlo. /Alleggerirmi. /Chi sa: si sale meglio più leggeri. / Si può pure volare come una foglia; /e quello che si lascia/ non va tutto per terra: sempre ci sta qualcuno /che lo raccoglie./ Un vizio che ha l’uomo:/ raccogliere per terra./ Appesantirsi.

domenica 16 settembre 2012

Ancora su scuola, bullismo e Monsieur Lazahr


Mi faccio trascinare dalla discussione, soprattutto extrablog, malgrado avessi detto che essa doveva esserci  dopo aver visto e digerito il film Monsieur Lazhar, per raccontare una piccola esperienza. 
Prima dell'estate mi sono affacciato nel cortile di una scuola elementare modello, per molti versi all'avanguardia, con una forte caratterizzazione multinazionale (e multietnica). Era un momento in cui i bambini non erano ancora chiusi nelle classi. La cosa che mi ha colpito immediatamente sono stati il frastuono, le grida, il movimento frenetico in tutto lo spazio del cortile. L’immagine che mi è venuta alla mente è stata quella di una immensa uccelliera. Questo frastuono era in realtà il prodotto di una infinita moltiplicazione di "giochi", di relazioni tra i bambini, di micro-negoziazioni, di piccoli atti di prepotenza e di pacificazione, di cambiamenti di fronte. Mi accorgo di una scena: una bambina scende dalla macchina e i genitori l'accompagnano al cancello. Un'altra bambina,  chiaramente in attesa,  spicca una corsa dall'altro lato del cortile  a braccia aperte gridando il suo nome. La bambina appena arrivata rimane fredda e impassibile, distoglie lo sguardo, sfugge all'abbraccio, tira dritta. L'altra bambina non si offende, ma ripiega nell’esibizione di giochi di equilibrio su un muretto, apparentemente indifferente, guardando con la coda dell'occhio se riesce ad attirare l'attenzione della sua "amichetta". Sforzi inutili. Naturalmente nessun adulto presidia la dinamica o l’osserva (a parte me che ero lì per caso ). Di nuovo piano lungo su tutto il cortile e poi di nuovo zoomata sulle microsituazioni, e vedo che in ognuna di essere i bambini sono impegnati nel gioco di attirare l'attenzione di questo o di quel compagno o compagna, nello schivare, nel tentativo di prendere la parola (per questo urlano), nel passare da una situazione a un'altra, oppure nell’includere o escludere gli altri dal gioco, nel dare o negare attenzione, in una frenetica attività di relazioni a due, a tre, a quattro.... Gruppi che rimangono costanti, gruppi che si disfano e si ricompongono, bambini che si guardano intorno per comprendere quale può essere la prossima mossa, dove dirigersi. E tutto ciò è riprodotto in modo più strutturato nei giochi, dov’è un continuo "mettersi alla prova", esibirsi, farsi vedere, farsi delle prepotenze, o nascondersi timidi, escludere ed includere o escludersi, rinunciare al confronti per paura o ritegno.  La scuola è primariamente un luogo di relazioni tra i ragazzi in un ambiente  formalmente finalizzato all'apprendimento, in cui gli adulti (insegnanti) devono costantemente conquistare una attenzione, uno spazio, un’autorità che in parte hanno per il ruolo, ma in parte dipende da come sapranno interagire con una dinamica che non possono controllare, ma cui possono (devono) dare delle regole, intrecciandola con un processo (anche) di apprendimento affidandosi poi alle dinamiche spontanee tra i bambini. Credo che questa sia la sostanza vivente della scuola, in cui ogni bambino o bambina porta non solo ciò che è ma ciò che vede fare a casa, ciò che crede si debba fare, le proprie paure e le proprie presunte sicurezze. 
Il film Monsieur Lazahr inizia con un episodio da cui e su cui si sviluppa tutta la vicenda fino alla scena finale: il suicidio di un'insegnante mediante impiccagione. Un suicidio inscenato nell’aula, scoperto (viene inquadrata solo la parte inferiore del corpo) dal bambino incaricato quel giorno a portare  dal magazzino la scatola di cartoni di latte per la classe. Monsieur Lazhar si candida per la sostituzione dell'insegnante e nel film costituisce in qualche modo l’occhio esterno (è algerino, non è neppure stato maestro nel suo paese, è quindi un millantatore, ma è una persona che porta con se una grande sofferenza, un destino da cui cerca di sfuggire) che grazie al suo dolore può interagire con il dolore dei bambini fino ad infrangere le direttive e i vincoli dell’istituzione. Come "gestire" il suicidio dell’insegnante? Questa domanda si lega strettamente a un’altra: perché si è suicidata? Quale è il senso di quella morte per ciascuno dei protagonisti, bambini o adulti? Basta allontanarlo da sé come la psicologa e l'istituzione vorrebbe o non occorre passare attraverso l'esplosione di una catarsi? Non voglio anticipare la fine, giacché il mistero si sviluppa con  tempi e  modi la cui scansione discreta, guidata da una suspense per vie interne dei sentimenti e delle relazioni, è parte integrante della bellezza del film. Posso solo dire che al centro ci sono i complessi e delicatissimi giochi relazionali che si sviluppano tra bambini e tra bambini e maestri, con tutti i dilemmi etici ed emotivi che essi evocano. Sullo sfondo i regolamenti, la deontologia, la vecchia e la nuova pedagogia, il dolore e i dilemmi su come affrontare situazioni “piccole” ma che possono innescare drammatici sviluppi. 
Mi vengono in mente le difficoltà di tutti i tipi che rendono quasi impossibile agli insegnanti agire in modo consapevole: organici insufficienti, classi troppo numerose, difficoltà a sviluppare un lavoro cooperativo, rapporti con le famiglie troppo spesso di incomprensione, supporto istituzionale carente... 
Sono pieno di rispetto per i tanti maestri che ogni giorno riescono ad affrontare queste situazioni, anche quando sono embrionali, in mezzo a tutte queste difficoltà, governando le cose senza dover intervenire ogni momento e solo quando è necessario.  Dell'episodio di Palermo mi rattrista il fatto che se la prof avesse lasciato correre non sarebbe successo niente. I peccati di omissione talvolta sono più gravi dei peccati (o degli errori) che si compiono perché si sbaglia, ma costano meno a chi li compie. 

martedì 11 settembre 2012

Monsieur Lazhar e i dilemmi della Scuola





Sembra che la scuola sia sempre più rappresentato come una angolazione privilegiata da cui osservare problemi, dolori e dilemmi etici di fondo del nostro tempo. Dopo Detachment, è uscito nelle nostre sale cinematografiche Monsieur Lazahr. Come le recensioni hanno messo in evidenza lo stile con cui si trattano i temi in questo film è essenziale, sommesso, mai apodittico, aperto al dubbio. Sempre di più sono convinto che quello che conta nei film non è la trama o le tesi che vengono sostenute, ma ciò che l’estetica complessa e corale del film (la recitazione, la regia, la sceneggiatura, la fotografia, ecc.) lascia allo spettatore e che spesso lo spettatore non sa rappresentare in altro modo che consigliando o non consigliando di andare a vedere un film, senza ridurlo a categorie che gli stanno strette.... Come ogni forma d’arte. Quindi mi permetto di consigliare questo film. Magari di consigliarlo, questo film canadese, oggi che inizia l'anno scolastico da noi in Italia e prima di mettersi a discutere del comportamento caso della prof. Giuseppina Valido di Palermo, cui la Cassazione ha comminato, dopo 5 anni e tre gradi di giudizio, 15 giorni di carcere per la punizione inferta  (scrivere  100 volte "sono deficiente") ad uno studente colto a compiere un grave atto di bullismo nei confronti di un compagno (seconda media). Violento è giudicato il professore per abuso del suo potere disciplinare.  L’Italia come il solito si schiera polarizzandosi a favore dello studente maltrattato o a favore dell’insegnante e tutti hanno ragione, tutti hanno torto. Mi colpisce il comportamento della famiglia del bulletto, mi colpisce l’incapacità della scuola di risolvere il problema al suo interno, mi colpisce che il bulletto (o la sua famiglia?) non sia perseguito per il danno psicologico inferto al compagno (cui si impedisce l’entrata al bagno accusandolo di essere effemminato, all’età di 11 anni!). Insomma un tema da trattare con la delicatezza sofferente di cui dà prova il film Monsieu Lazahr anziché affidarlo alle argomentazioni degli avvocati, alle carte bollate e alle sentenze dei giudici. Quando si arriva a questo punto, forse, qualsiasi decisione è sbagliata se non altro perché 5 anni di processi hanno lasciato senz'altro un segno su tutti i protagonisti, questo è certo. In ogni caso, sommessamente, consiglierei a tutti i protagonisti, ma soprattutto alla famiglia del bulletto, di andare a vedere questo film. E magari, poi, “il dibattito”. 

mercoledì 5 settembre 2012

Il senso del blog


(da www.outdoorblog.it: Mongolfiere a Cingoli)


Cerco di riprendere il filo e il senso di questo blog. Esso è stato uno stimolo a tenere una qualche forma di diario di riflessioni, emozioni, eventi significativi. E’ quindi molto personale. Nello stesso tempo, condivido tutto ciò, rendo tutto ciò “pubblico”. Mi accorgo che, se immagino di condividere i miei pensieri, penso "meglio", cioè produco meglio dei pensieri e mi riesce più facile stabilire tra loro connessioni creative, forse anche perché sono abituato a pensare dialogando, sono un po’ dipendente da questa forma del pensare, che è un po’ anche un rappresentare, un tradurre il mio pensiero e le mie esperienze in parole (trasmesse oralmente o per scritto), immagini, musiche. C’è stato un periodo nella mia vita, in piena adolescenza, che pensavo parlando da solo ad alta voce. Quindi, anche se il blog è un po’ un dialogo a senso unico, con un lettore virtuale che normalmente non si manifesta salvo  attraverso il conto delle visite che risultano dalle statistiche, esso mi aiuta ad unire pensiero e scrittura, riflessione e sua rappresentazione. In questo risiede, in fondo, il mistero della scrittura come potere del pensiero e potere sul pensiero, traduzione del pensiero in emozioni e delle emozioni in pensieri attraverso la scelta delle parole, la costruzione delle frasi, l’elaborazione dei testi....evocazione di immagini e suoni), atto privato e pubblico insieme, come un fare, come disseminare indizi in modo che anche la confessione più spudorata diventi, nella sua forma, pudica. Scrivere è sempre un manifestare, un rivelare, un dire, ma anche un celare, un suggerire, un non dire. Ho scovato recentemente negli scaffali du una libreria storica di Parma il bel saggio di Duccio Demetrio, Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, RaffaelloCortina Ed., 2011, che parla della passione della scrittura e degli scrittori per diletto (diversi dagli scrittori dilettanti!) e, a mio avviso giustamente, vede nella diffusione dei blog un’espressione della diffusione della passione per la scrittura (del diletto della scrittura) a livello di massa, oltre la cerchia degli addetti ai lavori. 
Mi sembra anche che il blog sia una forma molto democratica e libertaria, o almeno discreta, di condivisione. Non si impone nulla a nessuno, i post sono come piccole mongolfiere che salgono in aria con le loro fiammelle e si snodano seguendo gli inviti del vento, fino a scomparire, o a recarsi altrove. Ma sono anche un filo di ragionamento, delineano una “storia”, un inanellamento, che si può, volendo, ripercorrere all’indietro ricorrendo agli archivi, o seguire lateralmente, affidandosi ai link. Vi sono alcuni vecchi post che risalgono a mesi fa che continuano a ricevere visite. Il blog è anche uno spazio costruito nel tempo ma che può essere letto in modo sinottico.  Leggere e interpretare un blog richiede tempo almeno o forse ancora di più che scriverlo. Per questo è così diverso da facebook, che si presta piuttosto al surf dei sentimenti e delle emozioni. Da parte mia non sempre il percorso è lineare e io stesso mi domando il perché di certe deviazioni e quanto sia giusto lasciare al vento degli avvenimenti o delle letture il potere di orientare il flusso del pensiero. In questi mesi, non dovendo rispondere a nessuna autorità delle mie scelte grazie al mio nuovo stato di pensionato, sono diventato un lettore disordinatamente ed entusiasticamente onnivoro, ma mi accorgo che in questo modo, quando entro in una libreria o scelgo le ordinazioni su Amazon, sono diventato come un rabdomante e mi diverto a scoprire, anche ex post, i criteri, magari inconsci, che hanno guidato le mie scelte. Si crea in tal modo una certa interattività , un dialogo, tra me e gli autori con cui entro in contatto. Ciò crea sempre una qualche  oscillazione tra la stabilità dei miei gusti e delle mie propensioni e le direzioni che prendono i miei pensieri e le mie emozioni sotto la sollecitazione di questi nuovi “amici”, che magari mi spingono ad incontrare altri amici, per link successivi. 
Ora, per esempio, una nuova sollecitazione si è insinuata nella trama di pensieri e di riflessioni di cui ho cercato di parlare nel blog. Casualmente (continua, se vogliamo, il tema misterioso delle coincidenze di cui parlavo nel penultimo post), seguendo le vibrazioni del mio bastoncino da rabdomante, ho scovato e letto in simultanea due libri che non conoscevo, del cui contenuto nulla sapevo e che si sono rivelati entrambi dei libri sul morire e sul sopravvivere (oppure no) all'agonia e alla morte degli amici e delle persone più care. Sono due libri che trasmettono messaggi diversi, anche perché uno dei due parla  del morire all’interno della cornice della dissoluzione delle proprie facoltà fisiche e psichiche e di quelle della propria moglie nella vecchiaia, l'altro del ricordo del morire delle persone care e del loro ripensarle. Sono quindi esperienze diverse,  ma che ci (mi) obbligano a pensare alla morte, o meglio al morire, e che condividono un tipo di esperienza  assolutamente intima del dolore. Il primo libro sono i diari 1984-1989 dello scrittore ungherese Sandor Màrai (L’ultimo dono, Adelphi), il secondo è La Grande Festa, di Dacia Maraini (Rizzoli). La condivisione degli aspetti più intimi di questa esperienza, il difficile superamento del tabù che circonda l'esperienza della morte e del morire e del ricordare oltre la morte il morire delle persone più care e la loro scomparsa, richiede, per essere accettabile, un sovrappiù di sincerità rispetto allo scrivere di cose non protette da un tabù. Contemplo questa coincidenza (aver incontrato contemporaneamente questi due libri) e mi chiedo quale rapporto vi sia con la linea di riflessione sviluppata nel blog: per esempio, con  la "fiducia di fondo": accettare il lutto e il morire sono legati all’accettare la vita? Accettare il morire (il proprio e l’altrui morire) richiede una grande fiducia nella vita, mentre la mancanza della fiducia nella vita costituisce un ostacolo alla nostra capacità di accettare la morte (o anche di pensare e di parlare della morte): l’accettazione della morte costituisce il massimo livello di fiducia di fondo nella vita?). E la rimozione della morte è collegata con una crescente rimozione della vita? Penso che tornerò in uno dei  prossimi blog con maggiore precisione su queste assonanze che i libri di Maraini e di Màrai mi hanno suggerito con il filo conduttore del mio blog. Che rapporto c’è, per esempio, tra l’esperienza del donare e quella del morire? E tra il detachment, di cui ho parlato nell'ultimo post, e il vivere o il morire altrui, o anche i propri? Ho citato questo tema perché queste letture fanno parte del mio diario di questi giorni (è casuale che siano avvenute alla ripresa di settembre, quando mi accingo a pensare al nuovo anno e ai nuovi impegni che liberamente deciderò di  assumermi e in tal modo celebrerò definitivamente il lutto nei confronti di molti affetti, abitudini, "me" precedenti lasciandoli scorrere via, vivendo consapevolmente il principio buddista, ma non solo, dell'impermanenza) e i pensieri e le emozioni che esse mi hanno suscitato sono qualche cosa (un valore) che mi piacerebbe condividere:  ciò che mi piace condividere, più precisamente, è il rapporto tra questi pensieri e queste esperienze e quelle espresse in altri precedenti post e la trama  che sostiene il loro sviluppo, cui assisto con stupore a fianco dei miei lettori virtuali, riscoprendo in questo loro sviluppo ciò che vale per me, che ha sempre valso, anche quando mi distraevo, che ha animato i miei bisogni e i miei valori. Tutto ciò è intimo, individuale, personale, e non avrebbe molto senso condividerlo. Ma il lavoro che questa emersione esprime, questo è un valore che vorrei condividere, giacché mi capita il privilegio di realizzarlo. 

sabato 25 agosto 2012

Detachment








Con ritardo, ho visto, in una saletta semideserta di una multisala romana, il film di Tony Kaye “Detachment”, di cui avevo sentito parlare come di un film sulla crisi della scuola. Non è un film sulla scuola, né sulla sua crisi, e neppure è un film con un facile happy end. E’ una lente di ingrandimento sul dolore che accomuna trasversalmente e nello stesso tempo separa giovani, adulti e vecchi. Il film esibisce una estetica del dolore e della degradazione dove la pietà non è mai facile, perché il dolore cattura, come un gorgo, e risospinge indietro, e tra un dolore e l’altro si erge il muro della stolidità e della invisibilità. Il regista costringe lo spettatore a guardare il dolore e la sua irriducibilità, ma nello stesso tempo, nel momento in cui esso diventa insopportabilmente violento, offre la prospettiva del detachment, della presa di distanza che preserva, anche in condizioni estreme, la possibilità del rispetto, dell’empatia e del perdono, e apre inediti spiragli di contatto e ascolto reciproco. 
Ma Detachment è anche un film sulla scuola, perché non è un caso che per parlare di questo dolore chi ha diretto e sceneggiato questo film abbia scelto il setting della scuola. La scuola è presentata come uno spazio in cui i dolori e i conflitti convergono, collassano gli uni negli altri, e nello stesso tempo, proprio per questo, luogo di continua, rischiosa, quotidiana, tensione tra coinvolgimento, emozioni e detachment.  Insegnanti, assistenti sociali, psicologi, infermieri, medici, sacerdoti....., tutti coloro che per lavoro sono quotidianamente immersi nel dolore altrui e impegnati in relazioni di aiuto, e quindi non possono perdere il contatto neppure con il proprio dolore,  sanno di cosa stiamo parlando, di quali dilemmi parla il film. Ma il film si riferisce alla scuola in senso anche più stretto, perché i modi (le pratiche e le forme) in cui si  affronta il rapporto tra coinvolgimento emotivo, empatia, e detachment, sono diverse. Il film suggerisce che nella scuola questo rapporto si può affrontare perché offre la possibilità di scrivere, di leggere, di pensare e grazie a ciò costringe a guardare in faccia il dolore senza esserne catturati e travolti, lo restituisce e lo trasforma, o almeno questa è la posta in gioco. Leggere e scrivere non sono solo tecniche per imparare a esprimere dei concetti, ma sono anche il modo con cui diventiamo capaci di produrre dei concetti nostri, di resistere all’omologazione prodotta dall’industria dei mass media, e di rendere le nostre emozioni sopportabili (consapevoli), permettendoci di guardare in faccia il dolore che ogni emozione comporta. Nel film sono diversi ma discreti i richiami a questa peculiarità del modo in cui l’insegnare si mette costantemente alla prova nel confine tra coinvolgimento e detachment, e sempre accompagnati dalla consapevolezza che le occasioni di “successo” sono veramente poche e precarie, quasi inesistenti. La sfida riguarda la scuola stessa come istituzione partecipe del potere e degli interessi economici (fondiari) nel territorio. Il protagonista è un supplente che teorizza il suo ruolo di supplente quasi come se questo possa dare una possibile libertà rispetto all’istituzione, come un distacco necessario per poter restare sulla risacca dove il detachment non è ancora indifferenza. E‘ una tesi che spinge il ragionamento all’estremo ma che offre un quadro  di riferimento di attualità, così come i cenni ai movimenti di riforma scolastica negli Stati Uniti. Non più che cenni, che aprono però brecce nelle retoriche dominanti. 
Coincidenze. Quest’estate ho letto un racconto che in modo più leggero si riferiva anch’esso alla scuola: Il professionale, di Ugo Cornia: il suo protagonista è anch’esso un supplente, anche se nella veste del precario, il suo “tema” è anch’esso un detachment, anche se condotto sul filo dell’ironia scanzonata piuttosto che su quello della tragedia e il setting è anch’esso di una scuola "marginale" (IPSIA, ragazzi simpaticamente problematici, ambientato nel mantovano) ma ben diverso dai quartieri degradati dei ghetti americani. Anche qui il tema del detachment è tradotto in uno stile espressivo, una estetica, che permette al dolore (che  è in questo caso solo intuito, ridotto a malessere) di fluire via consentendo sprazzi di comunicazione e magari di empatia: “E’ sempre stato strano e un po’ impossibile  capire veramente che cosa c’è nella testa di un altro, e però per me  è sempre stata anche una delle cose più belle  lo stare a guardare, quando appaiono, alcuni pezzi di quello che tutti i cervelli, continuamente e instancabilmente producono. Allora ti vedi queste sequenzine di parole-pensieri-eccetera che a un certo punto saltano fuori, passano e poi scompaiono.”(p. 66). Mi domando se mettere a confronto il buio e duro mondo di dolore raccontato da Tony Kaye e il nondo scanzonato e apparentemente leggero di Ugo Cornia non possa dirci qualcosa sul detachment e sul coinvolgimento e il modo di affrontare il dolore, o anche il malessere: anche il mondo di Cornia, a ben vedere, non offre molte vie di fuga, ma anch’esso affida alla parola (alle sequenzine di parole-pensieri-eccetera e allo stile narrativo dell’autore) il miracolo dell’equilibrio tra coinvolgimento e detachment. 

Mi domando anche: questa ricerca incessante e sempre incompiuta e rischiosa di un rapporto tra emozioni e coinvolgimento e detachment, cambia significato nelle diverse fasi della vita: nell’infanzia, nell’adolescenza, nella maturità, nella vecchiaia. Essa resuscita costantemente, ripetendosi e riscoprendosi ogni volta come un punto di equilibrio su cui si gioca il nostro essere uomini in generale e in quel particolare periodo della nostra vita. Nasce qui il bisogno che avverto in questo periodo della mia vita - e che esprimo anche con questo blog - di ritrovarmi con la scrittura, luogo di riconciliazione e di separazione, di immaginario e di sincerità, di meditazione personale e di comunicazione, equilibrio tra me e l’altro da me, tra il me permanente e il me che fluisce e lascia andare, tra il dolore (o il malessere) e la gioia (o il benessere)? Desiderio di riconciliarmi con il mio dolore, di ricercare una più precisa esattezza di sentimenti e di espressioni, di ritrovare il mio essere coinvolto nel mondo e insieme un modo diverso di essere in contatto con me stesso.

lunedì 6 agosto 2012

Sentieri e altre coincidenze






Sentieri.


Qualcuno l'ha battezzata "Sentiero della speranza", la mulattiera che sale su dal villaggio di Glassier, oltre Ollomont, dove la strada carrozzabile termina dopo essersi inerpicata del lato destro (orografico) della Val Pelline, che dopo aver superato l'Alpe Pont, porta alla spettacolare Conca di By e sconfina in territorio svizzero, alle pendici del massiccio del Gran Combin con il suo ghiacciaio. Le nostre montagne sono attraversate da sentieri di pastori, o soldati, o contadini, o cortei al seguito delle cacce reali, o mercanti e contabbandieri, oppure anche ribelli, fuorilegge e perseguitati di ogni genere. Sentieri delle comunità o dello Stato, oppure, sentieri di libertà e speranza. Il turista ignaro della loro lunga storia, delle generazioni che nel corso dei secoli li hanno costruiti e curati, li percorre come se fossero stati concepiti per le sue escursioni. Sono le antiche strade, umili monumenti di una geografia che si può conoscere solo con i piedi, ribattezzate con le lettere e i numeri di una cartografia turistica che ne giustifica la moderna economia, quanto basta per non essere cancellate da vegetazione, acqua, valanghe e frane, a spese delle esauste casse dello Stato. Per tramandare tracce di resistenza antinazista e, forse involontariamente, di sconfinamenti ancora più antichi, qualcuno ha battezzato questa mulattiera "Sentiero della speranza" consacrandolo con le parole profetiche e l'auspicio di Emile Chanoux che l'Europa potesse diventare una grande Svizzera, la Svizzera di allora, s'intende, terra di convivenza e di accoglienza, anziché "gigantesco mattatoio" in cui "i deboli sono massacrati solo perché sono deboli e la forza non solo calpesta il diritto ma si fa diritto essa stessa". Mi sono mosso troppo tardi per un percorso che parte tirando e senza ombra, e il sole oggi picchia. Decido di non bruciare questa escursione e di lasciarla per un'altra volta, coltivando la nostalgia dell'attesa.
Torno indietro. Mi fermo ad una locanda con ombrelloni, sdraio e tavoli per mangiare in compagnia. Ho infilato nel mio zaino, come lettura per i momenti di sosta, Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi, ambientato nella Lisbona del 1938, ai tempi della guerra civile spagnola, quando l'Europa era in bilico sull'abisso della seconda guerra mondiale. lo leggo mentre gusto il "tagliere" di formaggi e salumi e un bicchiere di fresca birra bionda.
" Discesero in silenzio l'Avenida da Libertade e arrivarono al Rossio. Pereira scelse un tavolino all'interno, perché fuori, sotto la tenda, faceva troppo caldo". Chi dice che non si possono fare due cose contemporaneamente, magari traendo dalla loro inedita risonanza una irripetibile sensazione? Proprio allora hanno cominciato a scendere discretamente dagli altoparlanti nascosti nella tettoia della locanda gli arpeggi di una chitarra che suona la melodia di un dolcissimo fado. La coincidenza, che viola tutte le leggi della probabilità, mi fa sentire leggero, come se una brezza di provvidenza laica aleggiasse sui prati vasti immersi nel meriggio. Sostiene Pereira. Parlo con la signora che gestisce la locanda. Si chiama Roberta, da poco ha aperto l'esercizio, una scelta di vita. Ha portato questo CD da un viaggio in bici attraverso il Portogallo, con una sua amica. Ragioniamo delle coincidenze, del Portogallo, di Tabucchi, della sua nuova esperienza di locandiera.
Tra poche ore, in Val di Rême, ho appuntamento con una anziana maestra da molto tempo ormai fuori servizio, come si dice. Ha insegnato per trenta anni nei villaggi di queste montagne. È una di quelle donne che rinnovano ogni momento la curiosità, la bellezza e l'entusiasmo, come gli antichi sentieri. Mi siederò accanto a lei e raccoglieró i ricordi, freschi come di ieri, delle sue pluriclassi, di una ragazza ventenne che ha studiato ad Aosta ma è diventata maestra in un villaggio di montagna, di bambini volenterosi abituati a studiare senza smettere di lavorare, di rapporti costruiti sulla creatività e l'entusiasmo, con il sostegno delle famiglie e dei bambini stessi, senza sussidi ed aiuti, o corsi di formazione o di aggiornamento, e senza colleghi con cui scambiarsi le esperienze. Racconti di quotidiano, spensierato, ottimistico, non eroico eroismo. Sentieri, coincidenze, tracce, memorie.
"Forse, nell'imperscrutabile trama degli eventi che gli dèi ci concedono, tutto ciò ha un significato". Sostiene Tabucchi.
Desiderio di comunicare questo sentimento di trame delicate del primo di agosto di cui solo gli dei sanno il significato, di cui sono stato testimone.




venerdì 27 luglio 2012

Suzanne Balguerie chante "Ô malheureuse Iphigénie", de Gluck.

Incontro a Nardò su “Creative Mediation of Conflicts” organizzato da Studio IRIS (Centro di Mediazionee Formazione di Potenza (www.mediazioneiris.com)




E una donna disse: parlaci del dolore. 
E lui disse: Il dolore è lo spezzarsi del guscio che racchiude la vostra conoscenza. 
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi affinché il suo cuore possa esporsi al sole, 
così voi dovete conoscere il dolore. 
E se riusciste a custodire in cuore la meraviglia per i prodigi quotidiani della vita,
il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia; 
Accogliereste le stagioni del vostro cuore come avreste sempre accolto 
 le stagioni che passano sui campi. 
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore. 
Gran parte del vostro dolore è scelto da voi stessi. 
E’ la pozione amara con la quale il medico che è in voi guarisce il vostro male. 
Quindi confidate in lui e bevete il suo rimedio in serenità e silenzio. 
Poiché la sua mano, benché pesante e rude, è retta dalla tenera mano dell’Invisibile, 
E la coppa che vi porge, nonostante bruci le vostre labbra, 
è stata fatta con la creta che il Vasaio ha bagnato di lacrime sacre. 

Questa poesia di Kahil Gibram (da Il Profeta) potrebbe sintetizzare quello che mi ha dato l’incontro con la mediazione umanistica che ho fatto nel laboratorio Creative Mediation of Conflicts organizzato a Nardò da Studio Iris. La mediazione umanistica considera che il conflitto esprime un dolore. Quindi compito del mediatore umanistico non è semplicemente trovare un accomodamento tra due parti, ma fare in modo che le parti in conflitto accettino di passare attraverso il dolore (il dolore proprio e il dolore dell’altra parte) per “spezzare il guscio che racchiude la loro conoscenza”. Per poter essere facilitatore di mediazione il mediatore deve innanzi tutto conoscere la strada, deve lui stesso capace di guardare al dolore proprio o altrui come una opportunità di conoscenza, accettandolo come si accolgono le stagioni che passano sui campi. Mi viene da sorridere pensando che non accogliamo neppure le stagioni, che quando è freddo ci lamentiamo continuamente del freddo e quando è caldo ci lamentiamo continuamente del caldo. Forse vorremmo vivere nel limbo di una eterna primavera, con uno zefiro costante e profumato, ma anche allora troveremmo modo di lamentarci delle zanzare, delle spine delle rose, del fatto che la sera fa troppo fresco, oppure del polline che ci fa starnutire, perché siamo diventati allergici anche alla primavera. La strada della mediazione è quindi una strada di cambiamento, in cui si accoglie il dolore quando appare, con la consapevolezza che è "il medico che è in noi che ce lo manda "per guarire il male, per farci crescere nella conoscenza nostra e degli altri. Ma per fare questo abbiamo bisogno degli altri e per questo il conflitto va trasformato in dolore condiviso, in incontro (anche se poi dalla strada intrapresa le persone decidono di separarsi, ma dopo essersi “toccate”). Il dolore accettato produce il cambiamento. Dobbiamo accettare il cambiamento, ma per fare questo occorre guardare in faccia la paura, il terrore del cambiamento. Il cambiamento è benvenuto solo se sappiamo controllare la paura del cambiamento. Allora il cambiamento diventa risorsa, ricchezza, opportunità. E la medicina del dolore ha funzionato. Non è un passaggio facile. Abbiamo bisogno degli altri, ma abbiamo bisogno anche di costruire oggetti per stare in rapporto con gli altri, oggetti mediatori. Come Teseo può uccidere la Medusa usando il proprio scudo come specchio, perché se la guardasse direttamente in volto si trasformerebbe in pietra, abbiamo bisogno dello specchio per poter guardare il nostro dolore e mostrarlo agli altri, e inchinarci con grazia e compassione davanti al nostro dolore e al dolore degli altri. Il dolore spesso ci appare inaspettato, imprevisto. Come la gioia, d’altra parte. Quindi per accogliere il dolore, per accogliere il cambiamento, bisogna accogliere l’inaspettato. Come diceva Emerson: “Tutto ciò che sta per arrivare è sacro.” Ma per riconoscere questa sacralità dobbiamo superare gli attaccamenti. Gli attaccamenti ci precludono la disposizione all’accoglienza dell’inaspettato, di “tutto ciò che sta per arrivare”. 
Ho capito che la metodologia della mediazione umanistica deve molto a uno studio profondo della tragedia greca, dell’importanza delle sua scansione in teoria, crisi e catarsi per poter arrivare alla catarsi, intesa come rappresentazione, esplicitazione, riconoscimento delle emozioni e delle passioni mediante una azione drammaturgica. Le tecniche devono anche molto allo psicodramma e alla psicoterapia di Moreno e alle diverse forme di psicoterapia che vengono applicate alle situazioni di conflitto. Tuttavia non sono in grado di dire molto perché sono solo stato ospite di un incontro e non posso rispondere che delle mie impressioni, molto probabilmente parziali e da esterno. Posso solo testimoniare la conferma dell’importanza, in questi percorsi formativi, del gruppo e mi viene in mente la citazione di Moreno quando indica la ragione di questa importanza nel fatto che "L’intervento non è finalizzato solo a produrre un benessere psichico nelle singole persone, ma intende produrre nelle persone un apprendimento a relazionarsi in modo più adeguato con gli altri. Questo apprendimento non può avvenire che in un ambito di gruppo, nel quale si attenua l’Io e si evidenzia l’importanza della relazione, delle identificazioni e dell’incontro con l’altro". Ritengo che questo tipo di percorsi possono svilupparsi a diversi livelli, con accentuazioni diverse e con finalità diverse, richiedono una consapevolezza etica e deontologica basata sulla conoscenza di sé e l’aver imparato innanzi tutto ad essere mediatori con sé stessi, una consapevolezza delle emozioni e la capacità di lasciarle scorrere. Una riflessione importante che Francesca Genzano ha introdotto è inoltre quella del rapporto tra etica ed estetica. Un rapporto che non è esterno ma interno, e che fornisce il legame tra mediazione, accoglimento del dolore e dell’imprevisto, creatività ed etica. Un intreccio su cui è importante lavorare e riflettere. 

Ringrazio di nuovo gli amici di mediazione umanistica che mi hanno accolto con tanto calore a Nardò e spero di poter riuscire ad imparare ancora dalla loro esperienza, così come spero di imparare dalla mia esperienza.