sabato 12 gennaio 2013

Noi gente per formare un'unione migliore




Gli Stati Uniti d'America sono forse il paese in cui il rapporto tra motivazioni etiche e costruzione della cittadinanza, l'intreccio tra i dilemmi etici e le sfide della politica, vengono espressi in modo tanto convincente sia dai politici che dalla produzione culturale.  Difficile sottrarsi al fascino di quei sermoni e di quelle argomentazioni, di quei discorsi, di quei film e di quei romanzi, dove i più profondi nodi etici diventano storie e le storie sono un insegnamento da trasformare in politica. E' facile trovare (anche su Internet) tantissimi di questi esempi ma credo che gran parte dell'egemonia culturale statunitense sia spiegabile oltre che per cause economiche e "coloniali", anche per questo nesso, così come credo che questa sia la ragione anche per cui in tanta parte del mondo essa possa suonare blasfema. Anche il rapporto con la religione è notoriamente sempre presente. Propongo in questo post il discorso che Obama tenne il 18 marzo del 2008, in piena corsa elettorale, a Filadelfia, conosciuto come "Discorso sulla razza" ma il cui titolo ufficiale era "Noi gente per formare un'unione migliore" (We people in order to form a more perfect union). Sentendolo recentemente ho riflettuto molto sui problemi che abbiamo di fronte oggi, e su cui sto riflettendo, del rapporto tra etica e politica. Lo condivido con piacere nel mio blog, dove condivido le cose di valore,  con la traduzione in italiano di Giorgia Ferro e Sonia Ter Hovanessian pubblicata da www.fermento-democratico.ilcanocchiale.it.
La registrazione di you tube (della Fox) non è completa, quella completa può essere scaricata in 5 files sul canale BarakObama.com. La traduzione in italiano è quasi completa.



"Duecentoventuno anni fa, in una sala che esiste tutt’ora, dall’altra parte della strada, un gruppo di uomini si riunì e, con queste semplici parole, lanciò l’improbabile esperimento democratico in America. Contadini e studiosi; uomini di stato e patrioti che avevano attraversato l’oceano per sfuggire la tirannia e la persecuzione, fecero finalmente la loro dichiarazione d’indipendenza ad un convegno a Philadelphia, che durò tutta la primavera del 1787.

Il documento prodotto fu alla fine firmato ma nella sostanza rimase incompiuto. Era macchiato dal peccato originale di questa nazione, cioè dalla schiavitù, una questione che divise le colonie e portò il convegno ad un punto morto, finché i fondatori non scelsero di permettere la continuazione del mercato degli schiavi per almeno altri vent’anni, e di lasciare una eventuale risoluzione alle generazioni successive.

Chiaramente, la risposta alla questione della schiavitù era già stata inclusa nella nostra Costituzione – una Costituzione basata sull’ideale della pari cittadinanza sotto la legge; una Costituzione che prometteva al suo popolo la libertà, la giustizia ed un’unione che poteva e doveva essere perfezionata nel tempo.

Eppure parole scritte su una pergamena non sarebbero state sufficienti per liberare gli schiavi dalle loro catene, o per garantire ad ogni uomo e donna di qualunque colore e credo pieni diritti e doveri come cittadini degli Stati Uniti. Quello che fu necessario furono gli americani delle generazioni successive, pronti a fare la loro parte – grazie a lotte e proteste, nelle strade e nei tribunali, con una guerra civile e la disobbedienza, sempre a costo di grandi rischi – per colmare la distanza tra la promessa dei nostri ideali e la realtà del loro tempo.

Questo è stato uno degli obiettivi che ci siamo posti all’inizio di questa campagna – di proseguire la lunga marcia di chi è venuto prima di noi, una marcia per un’America più giusta, più uguale, più libera, più altruista e più ricca. Ho scelto di presentarmi alla candidatura presidenziale in questo momento della storia perché credo fortemente che le sfide dei nostri tempi si possono risolvere solo se le risolviamo insieme – solo se perfezioniamo la nostra unione capendo che possiamo avere storie diverse, ma abbiamo speranze in comune; che possiamo sembrare diversi e provenire da posti diversi, ma vogliamo tutti muovere nella stessa direzione – verso un futuro migliore per i nostri figli e nipoti.

Questa convinzione nasce dalla mia piena fiducia nella dignità e generosità del popolo americano, ma anche dalla mia esperienza di americano.

Sono figlio di un uomo nero del Kenya ed una donna bianca del Kansas. Sono cresciuto grazie all’aiuto di un nonno bianco che superò la ‘Depressione’ combattendo nell’esercito di Patton durante la Seconda Guerra Mondiale, e grazie ad una nonna bianca che lavorò in una fabbrica di bombe a Fort Leavenworthe mentre suo marito era oltreoceano. Ho frequentato alcune delle migliori scuole negli USA e, paradossalmente, sono vissuto anche in uno degli stati più poveri. Sono sposato con una nera Americana che porta in sé il sangue di generazioni di schiavi e il sangue dei loro padroni – un’eredità che tramandiamo alle nostre preziose figlie. Ho dei fratelli e sorelle, nipoti, zii e cugini di tutte le razze e classi sociali, sparsi in tre continenti e finchè vivrò, non mi stancherò mai di ribadire che in nessun’altra nazione al mondo la mia storia sarebbe stata possibile.

Questa mia storia non mi ha reso il candidato più convenzionale. Ma è una storia che ha impresso nel mio dna l’idea che questa nazione è più che una somma delle sue parti; presi tutti insieme, siamo un’entità unica.

Abbiamo sentito le parole del mio ex-pastore, il Reverendo Jeremiah Wright, che usa un linguaggio provocatorio per esprimere idee che potrebbero non solo aumentare la divisione razziale, ma anche denigrare tanto la grandezza quanto la bontà della nostra nazione; offendendo bianchi e neri in egual modo.

Ho già condannato, in termini inequivocabili, le affermazioni del Reverendo Wright, causa di tanta controversia. Per alcuni rimangono delle questioni sospese. Sapevo che il reverendo era un critico feroce della politica estera ed interna americana? Certamente. Ho mai sentito delle affermazioni considerate controverse mentre stavo seduto in Chiesa? Si. Ero fortemente in disaccordo con molte sue idee politiche? Assolutamente – proprio come sono sicuro che molti di voi avete ascoltato i discorsi dei vostri pastori, preti o rabbini trovandovi profondamente in disaccordo.

Ma i commenti che hanno causato la recente pioggia di fuoco non erano solo causa di polemiche. Non erano nemmeno dettati dalla volontà di una figura religiosa ad esprimere un’opinione contro l’ingiustizia. Anzi, esprimono una visione estremamente distorta di questa Nazione – una visione che definisce il razzismo bianco come endemico, elevando il peggio dell’America sopra a tutto ciò che sappiamo giusto in America; una visione secondo la quale il conflitto in Medio Oriente sarebbe radicato principalmente nelle azioni di alleati fedeli come Israele, invece che essere una opportunità di scacciare da lì le perverse ed odiose ideologie appartenenti all’Islam radicale.

In quanto tali, i commenti del Reverendo Wright erano sia errati che disgregativi, origini di divisioni in un momento in cui abbiamo bisogno di unità; carichi di razzismo quando abbiamo bisogno di metterci assieme e risolvere una serie di problemi poderosi – due guerre, la minaccia di terrorismo, un’economia in declino, la crisi cronica del sistema sanitario e un cambiamento climatico potenzialmente devastante; problemi che non sono né neri né bianchi né ispanici o asiatici, ma piuttosto problemi che riguardano tutti.

Visto il mio retroscena, le mie politiche, i miei valori ed ideali professati, senza dubbio ci sarà chi troverà insufficiente la mia presa di distanza dalle affermazioni del reverendo. Perché mai mi sono unito al Reverendo Wright, si chiederanno? Perché non frequentare un’altra Chiesa? Confesso che se io conoscessi il reverendo Wright solamente attraverso gli stralci di sermoni trasmessi a ripetizione in televisione e su You Tube, o se la Trinity United Church of Christ fosse effettivamente quella caricatura descritta dai commentatori, non vi è alcun dubbio che reagirei di conseguenza.

Ma la verità è che la mia conoscenza di quest’uomo va oltre. Il reverendo che conobbi più di vent’anni fa è l’uomo che mi ha introdotto alla mia fede cristiana, un uomo che m’insegnò il valore dell’amore e il dovere ad assistere malati e poveri.

Nel mio primo libro, Dreams from my father, ho descritto l’esperienza durante la mia prima messa al Trinity:

«Le persone si misero ad urlare, alzandosi dalle loro sedie, battendo le mani e invocando, mentre un vento forte trasportava la voce del reverendo fino alle travi…. in una sola parola – speranza! – ho percepito dell’altro; al piede di quella croce, nelle migliaia di Chiese sparse per la città, ho immaginato le storie di semplici persone di colore che si fondevano con le storie di Davide e Golia, Mosè e il Faraone, i Cristiani nella fossa dei leoni, le ossa di Ezechiele. Quelle storie – di sopravvivenza, di libertà, di speranza – diventavano la nostra storia, la mia storia; il sangue versato era il nostro, le lacrime le nostre lacrime; fino a quando, in quella splendida giornata, quella chiesa nera mi apparve piuttosto un veliero in grado di trasportare la storia di un popolo alle generazioni future e ad un mondo più ampio. Le nostre disgrazie e i nostri trionfi diventavano unici ed universali, al di là del colore della pelle; nel narrare il nostro cammino, e attraverso le storie e il canto, ci siamo riappropriati di una memoria storica senza doverci più vergognare….un passato che tutti possono studiare ed apprezzare – e col quale potremmo dar vita ad una ricostruzione».

Questa è stata la mia esperienza al Trinity. Come altre chiese nere di questa nazione, il Trinity incarna la comunità nera nella sua totalità – il dottore e la mamma a carico dello stato, lo studente modello e l’ex gangster. Le messe al Trinity, come in altre chiese nere, si distinguono per risate fragorose e umorismo. Sono piene di balli, applausi, invocazioni ed entusiasmo partecipe che può turbare un orecchio non avvezzo. La Chiesa raccoglie in sé la gentilezza e la crudeltà, l’intelligenza feroce e l’ignoranza sconcertante, le sfide ed i successi, l’amore e, sì, anche l’amarezza ed il pregiudizio che fa parte dell’esperienza neroamericana.

Tutto questo, forse, aiuta a comprendere il mio rapporto con il Reverendo Wright. Per quanto imperfetto possa apparire, egli è stato come una famiglia per me. Ha rafforzato la mia fede, ufficializzato il mio matrimonio e battezzato i miei figli.

Io credo che la razza sia una questione che questa nazione non si può permettere d’ignorare. Sarebbe come commettere lo stesso errore che il Reverendo Wright fa nei suoi sermoni offensivi sull’America – che banalizzano e stereotipano la realtà, amplificandone il lato negativo.

I commenti e le questioni venute a galla nelle ultime due settimane riflettono le complessità di questo paese legate alla razza, che non abbiamo risolto – una parte della nostra nazione che dobbiamo ancora perfezionare.

Ma la rabbia è reale; è viva; e aspettarsi che svanisca, condannarla senza comprenderne le sue radici, favorisce l’incomprensione che esiste tuttora tra le razze.

Di fatto, una rabbia simile esiste anche in segmenti della comunità bianca. La maggioranza di bianchi americani di ceto medio basso non si sente privilegiato dalla sua razza. La loro esperienza è l’esperienza dell’"immigrato" – per quanto li riguarda, nessuno ha regalato loro niente, si sono costruiti tutto da zero. Hanno lavorato sodo per tutta la vita, spesso per vedere il loro lavoro trasferito all’estero o la loro pensione annullata dopo una vita di stenti. Sono preoccupati per il loro futuro, hanno l’impressione che i loro sogni svaniscano. In un’epoca di salari fissi e competizione globale, l’opportunità viene vista come una partita a punteggio nullo, dove i propri sogni si realizzano a proprie spese. 

Così come la rabbia dei neri si è spesso mostrata controproducente, i risentimenti bianchi ci hanno distratto dalle vere cause della contrazione della classe media – discordie aziendali interne, pratiche di rendicontazione discutibili, avidità a breve termine ed una Washington dominata da lobbisti, interessi particolari e politiche economiche che favoriscono una minoranza rispetto alla maggioranza. Ma se liquidiamo il risentimento dei bianchi americani, etichettandolo come mal indirizzato o razzista senza riconoscerne le cause legittime – anche questo incrementa la divisione razziale e blocca il cammino verso la comprensione.

La situazione in cui ci troviamo adesso è questa, uno stallo della questione razziale in cui siamo bloccati da anni. Contrariamente alle constatazioni di alcuni miei critici, sia bianchi che neri, non sono mai stato così ingenuo da credere che si possano superare le divisioni razziali in una singola tornata elettorale e neanche in un solo mandato presidenziale – soprattutto in un mandato imperfetto come sarebbe il mio.

Ma ho un profondo convincimento – un convincimento radicato nella mia fede in Dio e nella fede nel popolo americano – che lavorando assieme possiamo andare oltre i vecchi rancori razziali, e che quindi non abbiamo altra scelta che continuare sul cammino per un’unione migliore.

Per la comunità afro-americana, questo cammino verso il futuro significa abbracciare il peso del nostro passato senza diventarne vittime. Significa continuare a battersi continuamente per una piena giustizia in ogni aspetto della vita americana. Ma significa anche legare le nostre rimostranze – per avere un servizio sanitario migliore, scuole migliori, lavori migliori – alle aspirazioni di tutti gli americani – la donna bianca che si sforza di rompere il tetto di vetro, l’uomo bianco licenziato, l’immigrato che prova a dare da mangiare alla propria famiglia. Questo significa assumersi le proprie responsabilità – chiedendo di più ai nostri padri e passando più tempo coi nostri figli, e leggere e insegnare loro che anche se affronteranno sfide e discriminazioni nella loro vita, non dovranno mai soccombere alla disperazione o al cinismo; essi dovranno sempre credere di essere autori del loro destino. 

Il grave errore dei sermoni del Reverendo Wright non è che egli parlò di razzismo nella nostra società. Ma piuttosto che ne parlò come se la nostra società fosse statica; come se il progresso non fosse avvenuto; come se questa nazione – una nazione che ha reso vera la possibilità che un semplice cittadino possa correre per la carica più alta del nostro paese e costruire una coalizione di bianchi e neri, ispanici ed asiatici, ricchi e poveri, giovani e vecchi – fosse ancora inevitabilmente legata ad un passato tragico. Ma quello che sappiamo – quello che abbiamo visto – è che l’America può cambiare. Questo è il vero spirito di questa nazione. Quello che abbiamo già conquistato ci dà speranza – l’audacia di sperare – per ciò che possiamo e dobbiamo realizzare domani".



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