martedì 1 gennaio 2013

Primo gennaio 2013



Albert O. Hirschman

E' il primo anniversario di questo blog. Anche in chi si è stordito nel far festa (e di che poi?) vi è la sensazione che il passaggio di anno debba essere un momento di bilanci e di propositi. Normalmente sono bilanci e propositi "per burla", poco seri, perché siamo poco abituati a riflettere con intensità e serietà, siamo poco abituati a prenderci veramente sul serio. Dovremmo/dovrei esercitarci/mi a riflettere  quotidianamente, prendendoci cura di noi/me stessi/o, imparando ad essere amici di noi/me stessi/o. Se non ci esercitiamo quotidianamente non riusciamo a farlo neppure nel passaggio di anno. E se ci scopriamo incapaci di prendere degli impegni con noi stessi, poi, come potremo pensare che saremo in grado di prendere impegni con gli altri?
Questo blog "sottoilpelodell'acqua.blogspot.com" compie oggi un anno rompendo il muro del suono delle 3000 visite (3021). Aveva superato le mille visite il tre luglio. Il post  più visitato (59 visite) è stato quello intitolato "Felicità e gratitudine, quale rapporto?" del primo luglio, in cui accennavo, in modo abbastanza problematico, al rapporto tra felicità, benessere, fiducia e gratitudine, con un forte richiamo religioso rafforzato dal link a Mahalia Jackson "Just as I am" e dalle citazioni a Erickson, Konig e Seligman. E' un modo di impostare il  rapporto tra pensiero positivo, sentimento di gratitudine (valorizzazione del presente e di chi ci dona quotidianamente e di tutta la dimensione gratuita di ciò che siamo e abbiamo) e benessere non semplice, non facile. Il mio post era molto aperto e problematico. Non mi sento quindi toccato dall'attacco che recentemente è stato sferrato contro il pensare positivo, il positive thinking, da alcuni psicologi. Pessimism is Cool: il pessimismo è di moda, è il titolo dell'articolo del Wall Street Journal  al saggio di Collinson sulla Prozac Leadership. In Italia ne ha parlato Federico Rampini su La Repubblica del 20 dicembre scorso. L'attacco considera particolarmente l'uso del positive thinking fatto nel mondo delle imprese e della finanza, cui viene addebitata addirittura la crisi del 2008. E' una reazione sacrosanta, perché il "pensare positivo"  era diventata una forma di collasso del pensiero critico nelle organizzazioni e in alcuni ambienti professionali, dove si era creduto troppo alle profezie che si autoavverano: se tu credi che avrai successo, avrai successo; se tu assumi un atteggiamento perdente, sarai perdente. Sei tu l'artefice del tuo destino, non te la prendere con gli altri, non ti lamentare, cambia tu, pensa positivo! E se devo scegliere dei collaboratori o dei dipendenti, meglio che seleziono quelli che pensano positivo (e che non siano obesi o fumino). Chi non preferisce avere nel proprio gruppo una persona che pensa positivo, che reagisce in modo propositivo alle difficoltà, che è resiliente, invece di un pessimista e piantagrane? 
La moda del pensare negativo ha una ragione, come ce l'aveva la moda del pensare positivo. Il pensare positivo si presta ad un uso indebito, nel momento in cui è un autoaccecamente e un collasso dello spirito critico. Nei regimi totalitari coloro che non pensano positivo son bollati come disfattisti e traditori. Non è molto diverso se è il tuo capo (il leader prozac) che usa la tua capacità di autoinganno e di autocensura per procrastinare le conseguenze dei suoi sbagli. C'è molto totalitarismo nelle nostre organizzazioni e ci sono troppi yes men. D'altra parte far notare i segnali critici, deboli o forti che siano, è sempre faticoso e costoso, stare zitti è sempre più comodo, come gli studi sui rischi mettono in luce. Il pensiero positivo in questo senso puo essere un serio fattore di rischio.
Pensiero positivo e pensiero critico, quindi, non devono essere separati, pena una degenerazione  totalitaria del pensiero e dell'etica e una insensibilità organizzativa al rischio e al pericolo, ma anche al cambiamento e alle situazioni non previste. Il pensiero positivo ha bisogno del pensiero critico. Nel management si usa uno strumento, definito dall'acronimo SWOT, una matrice per procedere in modo equilibrato ad una valutazione della situazione (Strength, Weacknesses, Opportunities, Threats: Forze, Debolezze, Opportunità, Minacce). Il pensiero positivo vede solo le forze e le opportunità, quello negativo solo le debolezze e le minacce ambientali. Ovviamente occorre considerare tutti i quadranti della matrice per non perdere il contatto con la realtà, per essere realisti senza cessare di essere fedeli ai nostri Strength, ai punti di forza, ai valori, alle capacità, che ci rendono (come individui e anche come organizzazioni) unici. Ma la trasformazione degli Strength in Opportunities non è automatica, passa attraverso il costante monitoraggio critico delle nostre Weacknesses e dei Threads, delle minacce ambientali.  Monitoraggio costante, perché la valutazione di chi siamo, dove siamo, cosa facciamo, deve essere sempre dinamica, in quanto  viviamo effettivamente sempre in un ambiente riflessivo, di cui siamo "in qualche modo" gli attori.  Se usciamo da un approccio dopato all'empowerment, tipico del pensiero positivo acritico e conformista, possiamo cominciare a sperimentare un empowerment riflessivo, che cresce sulla terra fertile e mite della gratitudine e della riflessività. 
Per tutti questi motivi penso che tra pensiero "positivo", o psicologia "positiva" intesa come una sorta di igiene mentale dell'epoca del "benessere" e atteggiamento "apprezzativo" (appreciative) che sembra a prima vista esserne solo una variante, esista una differenza profonda. L'apprezzatività implica infatti  partire dai punti di forza, ma anche esercitare riflessività e  valutazione critica, ed è un concetto che ha delle valenze psicologiche, indubbiamente, ma soprattutto delle valenze etiche diverse da quelle del pensiero positivo. L'etica del pensiero positivo mi sembra slittare pericolosamente verso un'etica assolutista, il  pensiero unico e la mistificazione, mentre l'etica dell'apprezzatività è un'etica situazionale, dialogante, gentile, volta a valorizzare le differenze. La psicologia positiva è basata su un concetto delle strength (dei punti di forza) come fossero già delle opportunità di cui si ha il diritto di disporre. L'approccio appreciative invece considera le strength come dei talenti che ci sono affidati e che dobbiamo (per il nostro stesso benessere) valorizzare come beni non nostri, in un approccio non proprietario. 
Un altro spunto di riflessione mi viene dal ricordo di un importante pensatore (la parola economista è stretta per lui)  scomparso l'11 dicembre scorso: Albert O. Hirschman. Nel libro che più lo rese famoso anche in Italia (Exit, Voice and Loyalty, tradotto in Italia con Lealtà, Defezione e Protesta) egli offrì  un modello di analisi delle scelte e dei comportamenti economici e sociali complesso nelle implicazioni, ma  semplice e potente nell'impalcatura, utilissimo per studiare e comprendere la dialettica tra partecipazione attiva, e defezione del consumatore insoddisfatto. Erano gli anni '70 e allora si discuteva molto di queste cose. La voice, cioè la partecipazione critica, muove da un terreno appreciative, di fiducia, ma anche da una sottovalutazione dei costi che la partecipazione richiederà (la mano "nascondente" della partecipazione). L'approccio apprezzativo e la fiducia (che si può esprimere nella lealtà alla organizzazione o al dirigente o al partito o sindacato) inducono la sospensione del calcolo economico e inibiscono (fino a un certo punto) la capacità di valutare freddamente il rapporto costi-benefici. Ma è un deficit di razionalità? La partecipazione consiste in un deficit di razionalità rispetto al calcolo economico di mercato? Il dilemma è risolto da Hirschman considerando che quelli che in un determinato momento e una determinata situazione sono dei costi in un'altra sono in realtà dei benefici. La partecipazione in sé può essere  un beneficio in per chi partecipa, indipendentemente dai costi che comporta e soprattutto dai frutti della partecipazione. Partecipare è un costo che diventa beneficio. Ma la partecipazione senza possibilità di uscita (o con grossi ostacoli politici, economici, psicologici, all'uscita) può comportare una caduta di spirito critico, l'affievolimento della voice, anche a seguito degli investimenti che essa richiede e che portano a perseverare oltre l'evidenza in scelte che si rivelano sbagliate o non più adeguate proprie o del proprio capo o del proprio gruppo o della propria organizzazione. Mi sembra di scorgere in questo ragionamento considerazioni importanti per superare la polemica tra sostenitori del pensiero positivo e sostenitori del pensiero negativo -  o mi inganno? E' difficile che vi sia partecipazione fuori da un approccio apprezzativo, ma nello stesso tempo se ci si affida in modo acritico e non riflessivo al ricatto del pensiero positivo si diventa incapaci di apprezzare il valore e l'eccentricità della voice, delle informazioni che essa trasmette, delle prospettive che essa apre e si rischia il baratro o il declino, finché non è troppo tardi. 
In questo periodo di primavere, cioè di una nuova ondata di grandi mobilitazioni, e di crisi/cambiamento della politica italiana - tutto sta cambiando - queste riflessioni di fondo tornano di grande utilità per costruire una bussola. 

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